sabato 30 ottobre 2010

Quattro passi... con Ben - Quattordicesima puntata

Giacomo era un ragazzo molto buono e altamente democristiano. Spesso, quando le lezioni ce lo permettevano, ci mettevamo accanto di banco e cominciavamo a scontrarci con le nostre idee politiche: lui figlio di un direttore di banca, più chiesa che casa, diacono fino alla morte, ed io figlio di operai comunisti che lavoravano in un circolo di comunisti, cresciuto vedendo rosso, ammiratore di Berlinguer. Ero molto più innamorato della politica da ragazzo che oggi.
Ognuno di noi due alla fine rimaneva della propria opinione, ma allo stesso tempo, in quella nostra diatriba politica, la stima era reciproca e fortissima. Ancora oggi, quando ci incontriamo nella banca dove lui lavora, ci salutiamo e ricordiamo quei tempi.
Fra gli altri ragazzi nuovi, ricordo qualcosa di Elvira, che sembrava una diva degli anni trenta, a causa della sua pettinatura. Era un pezzo da novanta: bella, di classe nel portamento.
Spesso quando andavamo in laboratorio di fisica o chimica, sfruttando il disinteresse dei professori, giocavamo fingendo di farci le coccole. Io finivo per appoggiare la mia testa, disteso all’indietro, sulle sue cosce, con lei che mi accarezzava la faccia. Era una finzione, ovviamente. Magari avere una ragazza così, che ha molta cura per il suo ragazzo! A scuola era un disastro e fu bocciata. La rividi molti anni dopo, abbrutita, dall’aspetto rozzo, sciupata dalla vita forse, certamente molto diversa da come la ricordavo.
Faceva la donna delle pulizie ed in quel periodo lavorava per il figlio del mio datore di lavoro. Fui contento e triste allo stesso tempo di rivederla. Che fine aveva fatto la mia diva? Ci salutammo. Io le feci un grande sorriso la mattina che venne in ufficio.
“Ciao Elvira. Che piacere!”
“Ciao Roberto. Sei sempre uguale” disse con un velo di tristezza.
“Certo, come no!” risposi mostrando la mia scarsa capigliatura.
Il suo volto rivelò uno stato di disagio. Forse perché io avevo finito le scuole, ce l’avevo fatta, mentre lei non era andata avanti ed ora doveva arrangiarsi pulendo le case degli altri. Sembrava aver fretta. Colsi quel suo imbarazzo e cercai di tagliare corto.
“Dimmi, sei venuta per le chiavi?”
“Sì, mi hanno detto che le avrebbero lasciate in ufficio.”
“Tieni, ecco qua” gliele detti.
Nei giorni successivi ci vedevamo da lontano, io in ufficio e lei nel giardino di fronte a sfaccendare. Ci salutavamo con la mano, ma non tornò più in ufficio. Poco tempo dopo smise di lavorare lì e non la vidi più.

Settimana pesante

E' stata lunga. Da tanto tempo non provavo questa stanchezza, tale da farmi rientrare in casa e farmi dire: oh, finalmente un po' di riposo!
Adesso spero di poter approfittare dei prossimi due giorni festivi per ricaricare  un po' le pile, magari accompagnandomi con buone letture, se avrò dei momenti in cui potrò permettermi di leggere. Non che ci sia qualcuno a impedirmelo, ma prima preferisco riservare le mie attenzioni ad altro.
Vi auguro un buon week end.

P.s. e se qualcuno ha voglia di camminare, faccia pure altri... quattro passi.

lunedì 25 ottobre 2010

Quattro passi... con Ben - Tredicesima puntata

Fiorello fu al centro di un caso degno di finire a “Chi l’ha visto?”, se all’epoca ci fosse stato, perché ad un certo punto dell’anno scomparve dalla circolazione. Si venne a sapere che si era ammalato, ma il giorno del rientro non arrivava mai. Ma cosa era successo?
Gli insegnanti ci rispondevano che era malato, che suo padre aveva avvertito che sarebbe rientrato, ma non molto presto perché la sua malattia aveva bisogno di una lunga convalescenza. Ma quale malattia? Questo non si poteva sapere.
Erano trascorsi ormai più di trenta giorni e Fiorello ancora non si era rivisto a scuola. D’altra parte nessuno di noi aveva il coraggio di andare a casa sua, poiché, sicuramente, la sua doveva essere una malattia molto grave, vista la lunga assenza.
Un giorno vedemmo entrare a scuola suo padre, un uomo minuto e anziano. Con il passo insicuro e lo sguardo curioso di chi sta cercando qualcosa, si aggirava per i corridoi, affacciandosi ad ogni aula per vedere se era quella che stava cercando. Stava per suonare la campanella della prima ora.
“Buongiorno” disse. “È questa la prima F?”
“Sì” risposi mentre, appoggiato alla porta, parlavo con alcuni ragazzi prima di andare in classe.
“Sono il padre di Fiorello.”
“Piacere, e Fiorello come sta?”
“Bene, … grazie” rispose lui con lo sguardo sorpreso e un po’ meravigliato per quella domanda. “Me lo potresti chiamare, per favore? Devo riportarlo a casa. L’insegnante è ancora arrivato?”
“Mio Dio” pensai. “E adesso?”
In un attimo avevo capito tutto. Fiorello non era mai stato malato. Aveva fatto “forca” per tutto quel tempo. Incredibile! Oltre un mese di assenza, con suo padre che lo credeva a scuola. Sua madre era morta da tempo, per quel che sapevamo.
“L’insegnante sta arrivando. È meglio che l’aspetti e parli con lei. Arrivederci.” Lo salutai ed entrai in classe.
L’insegnante gli fece la solita domanda riguardo alla salute di Fiorello. Io intanto ero al mio posto, ma ricordo molto bene la faccia di quell’anziano signore che divenne pallida quando la situazione iniziò a venire a galla.
Frastornato, deluso, incredulo, tradito dal proprio figlio, e chissà quanti altri brutti sentimenti stava provando in quei momenti quell’uomo. Che dispiacere poteva provare un padre? Sacrificarsi per crescere un figlio ed essere ricambiato con tale moneta. Che cosa poteva essere accaduto affinché Fiorello si comportasse in quel modo? Anche noi compagni di classe ci sentimmo in qualche modo traditi dal suo comportamento. Perché mai tutta quella messinscena?
Le nostre domande rimasero senza risposta, per ovvi motivi di riservatezza, quella che oggi chiameremmo “privacy”. I professori non ci dettero spiegazioni e nemmeno Fiorello quando rientrò. Si limitò a dire che voleva smettere, ma non sapeva come dirlo a suo padre. Dopodiché calò il sipario. Alla fine dell’anno fu bocciato e di lui non seppi più nulla.

domenica 24 ottobre 2010

Quando si sguazza perennemente nel buio

Ho ricevuto dal mio amico Josil questo testo ed ho ottenuto il suo permesso per metterlo sul blog.
Lo ha scritto, come dice lui, in un momento di raptus seguito da irrefrenabile desiderio di scrivere qualcosa.

Quando si sguazza perennemente nel dubbio, non possono scaturire scelte sensate ma decisioni basate sull'improvvisazione ai limiti del teatrale e del bizzarro.
Le conseguenze sono esponenzialmente tanto più devastanti quanto più vi è mancanza di umiltà e incapacità ad ascoltare.
"Umiltà" non vuol dire sottomettersi, ma riconoscere i propri limiti con spirito critico, facendo in modo che l'ottusità mentale che ci limita, allenti un po' la presa.
Ascoltare non vuol dire "rendersi umili", ma rendersi "consapevoli" dell'importanza che riveste il riconoscere che il "tutto" non sta nel singolo.
Il "tutto" è l'infinito; e come tale è talmente vasto e "incomprensibile" che non lo si può né determinare, né tantomeno circoscrivere.
Tendenzialmente tutti pensano di risolvere "tutto" e questa è la spiegazione generica per la quale non lo si teme.
Ed ecco che in questo "non temerlo" entra in giuoco quella superficialità che ci contraddistingue e che se da una parte ci facilita perché ci porta a banalizzare, dall'altra ci rende poveri dentro.
Sì, perché questo "giuoco" del banalizzare, quando lo si usa troppo spesso, ti porta all' "assenza", e cioè al renderti estraneo dalle cose che ti circondano.
E quando quello che ti circonda ai tuoi occhi diventa "assente", o sei un fantasma, o diventi violento, o cominci a vacillare.
Il fantasma dicono che fa paura solo perché fin da piccoli ti viene raccontato come un'entità dalla quale fuggire; in realtà fa solo ridere a sé stesso e agli altri e in fin dei conti alla fine ne scopri la sua inutilità. Nelle rappresentazioni classiche è vestito solo con un semplice lenzuolo bianco, ma perché non nero? Forse è il segnale che già il suo ipotetico inventore lo aveva pensato "innocuo"? Sì, innocuo, inutile e, aggiungo io, "assente". E così da fantasmi ci muoviamo in un mondo che non ci appartiene. Ci viviamo sì, ma senza farsi troppe domande perché tanto non ha bisogno né di domande né tantomeno di risposte. Per questo risulta scostante agli occhi degli altri.
Il violento invece ha tutte le risposte in tasca sua. Peccato che per lui non ne esistano altre, e così tanto più è convinto delle sue idee quanto più le impone con modalità violenta.
Lui sì che spaventa (altro che fantasma)!!; uno che non ti lascia spazio su niente ed è talmente sicuro di sé che gli altri non esistono e possono essere così calpestati a piacere.
E chi invece vacilla? Di sicuro molti entrano in depressione, non si sentono compresi perché credono di essere loro i soli custodi della verità. Peccato che spesso non riescono a fare proseliti. Che tristezza... che fatica... chi ti sta intorno spesso ti evita perché non ne può più dei tuoi sermoni. Sì, perché se il violento fa paura, chi vacilla ti stressa.
Chi non entra in depressione è riuscito a costruirsi una "setta" propria con adepti che lo seguono, oppure si è costruito intorno una famiglia completamente alle sue dipendenze che lo asseconda in tutto ma lo vorrebbe morto.
Ma dunque, se sopra ho parlato delle conseguenze legate al "non temere il tutto" , allora cosa accade a chi lo teme o, diciamo meglio, a chi non lo banalizza?
Ci saranno anche qui fantasmi, violenti e vacillanti? Ma soprattutto, e se chi scrive è un vacillante?
Beh, il mio consiglio è... se pensi che lo sia, chiudi il foglio e brucialo.
Naturalmente proseguire o meno la lettura dipende solo da te indipendentemente da ciò che pensi che io sia, immagino.
Ma prova a chiederti: continui questa lettura perché sei "curioso?" , "umile'?", hai uno "spirito critico?".
Io personalmente non so cosa mi ha spinto a scrivere né tantomeno in questo preciso momento saprei dirti cosa scriverò ancora e soprattutto il perché. In questo momento sono confuso ma felice, come diceva la Carmen Consoli.
Chi teme il "tutto" solitamente in qualche modo vacilla ma con modalità diverse dal vacillante sopra rappresentato.
E così proverò a sintetizzare e dipanare in seguito ciò che mi viene in mente al momento:
- vacilla e barcolla ma non cade
- vacilla e ondeggia ma non cade
- vacilla e cade
Tutti e tre sono travolti pesantemente dalle mille domande e misteri dell'esistenza umana. Chi vacilla e cade ne viene schiacciato e annientato. Chi cade, non ha nessun appiglio, nessuno lo può aiutare perché non trova certezze né dalla scienza, né dalla fede.
Questo apparentemente "caso disperato" ritengo che sia invece il ritratto di molti di noi che ci facciamo sì le domande esistenziali, ma paradossalmente rispetto al "fantasma" che si é costruito un mondo tutto per sé nel quale vivere ma non è "confuso", chi cade nella consapevolezza che non ci si può sottrarre dalle questioni esistenziali, vive peggio del fantasma.
E che dire di coloro che ondeggiano? Sulle questioni esistenziali si sentono un po' atei quando serve esserlo e un po' credenti al tempo stesso (da qui il termine ondeggiare). Un mix che poi non risolve e non dico niente di nuovo, un mix che anche in questo caso crea confusione ma ti tiene su una "stampella" per non farti cadere e cedere del tutto.
Dunque a questo punto resta il pezzo forte. Quello che barcolla in effetti è quello che a mio avviso una decisione finalmente l'ha presa.
Ma sia che si tratti di scienza o di fede, la strada l'ha tracciata con la volontà di perseguirla superando gli ostacoli che incontra e credendoci fino in fondo. Di questi ce ne sono pochi ma è lì che dobbiamo cercare di arrivare tutti.
Eccomi qua, ho riletto tutto ciò che avevo scritto finora e mi è saltata subito in mente una considerazione. Ma se ero nato in un villaggio sperduto nella foresta amazzonica avrei ugualmente scritto quello che ho scritto? Direi proprio di no.
Già un lettore della mia stessa specie mi avrà dato di matto a leggermi, figuriamoci un ipotetico lettore di uno sperduto villaggio dell'Amazzonia cosa avrebbe pensato di me dopo queste poche righe.
Allora come funziona lì da loro? Di primo acchito ecco che mi viene in mente il "senso di appartenenza". In questi popoli il significato di stare insieme assume un’importanza che da noi ormai è solo a parole e non la ritrovi neppure nelle squadre di calcio.
Ecco come li vedo io e come credo che molti si immaginano; un solo popolo , un solo gruppo in condizioni difficili ma unito da quell'appartenenza senza la quale la vita sarebbe impossibile. Ma se poi vai a vedere anche lì, in popolazioni solo apparentemente "elementari" si scopre che l'appartenenza non è sufficiente; c'è un divino a cui riferirsi, sia esso natura (scienza) o divinità (fede).
Ma è giusto il termine "riferirsi" in questo caso? Ma cosa faccio: mi faccio le domande da solo? Oh oh... per questa volta passa.
Sì, perché ciascun popolo si riferisce a più divinità o a un dio unico chiamandolo con nomi diversi ma quello che è sorprendente è che non se ne può fare a meno.
Così almeno io penso di aver compreso che i problemi esistenziali inevitabilmente portano al divino.
E concludo come dice il grande Battiato:

... che siamo esseri immortali
caduti nelle tenebre, destinati a errare;
nei secoli dei secoli, fino a completa guarigione...

Grazie Josil.

sabato 23 ottobre 2010

Quattro passi... con Ben - Dodicesima puntata

La 1^ F Ragioneria era nel distaccamento di Via Fonda.
In quell’edificio fatiscente c’erano poche aule, per cui non fu difficile trovarla. Fui tra i primi ad arrivare e così aspettai con ansia gli altri vecchi compagni delle medie, mentre molte facce nuove stavano entrando. Uno ad uno arrivarono Riccardo, Elena, Andrea, Maria Grazia, Gigi, Fiorello, Maurizio, tutti provenienti dalla vecchia III A delle medie.
Presi posto all’ultimo banco con l’inseparabile Riccardo. Davanti a noi si sedettero due ragazze, Paola e Sandra, che conoscevo di vista perché avevamo frequentato la stessa scuola elementare, ma in sezioni diverse. Paola era rossa di capelli, un po’ grassottella, con una simpatia esplosiva. Sandra era più riservata, già fidanzata con un ragazzo molto più grande di lei, un po’ meno simpatica, inizialmente, e molto carina. Abitava al Nespolo e molti ragazzi del posto avevano tentato inutilmente di farle la corte, per dirla con una parola di altri tempi.
Andrea era finito nelle prime file insieme a Gigi che, a causa della sua stazza fisica, copriva tutti quelli che gli stavano dietro. Elena e Maria Grazia erano alla mia destra.
Dall’ultima fila si dominava tutto, si vedeva ogni cosa e soprattutto ci si nascondeva bene dallo sguardo dei professori. In pochi giorni prendemmo confidenza con i nuovi compagni, soprattutto con Paola e Sandra, con le quali iniziò un rapporto di collaborazione e complicità che ci portò ad essere amici, molto più che con i vecchi compagni delle medie.
Con Riccardo eravamo ancora compagni di banco, ma fuori dalla classe c’era poco o niente perché, nonostante io fossi ancora legato a lui, egli aveva preso un’altra strada; usciva con ragazzi che avevano il motorino, come lui, e per me, che ero appiedato, non c’era più spazio.
Andrea frequentava nuove amicizie, fatte dopo essere ritornato ad abitare a Pistoia.
Maurizio era di una simpatia unica, una battuta dietro l’altra e, come alle medie, riuscivamo a divertirci molto quando finivamo, per un motivo o per un altro, vicini di banco.

martedì 19 ottobre 2010

Stasera...

... ho appreso un nuovo concetto: il silenzio come fondamento della parola.
E adesso devo rifletterci un po' su.

domenica 17 ottobre 2010

A volte...

... ho la sensazione di lasciare il Rifugio in balia di se stesso.
Avrei delle cose da dire, ma poi rinuncio, perché... boh, il motivo non è ben chiaro nemmeno a me.
E allora inserisco qualcosa che ho già scritto, come gli episodi di Quattro passi.
Eppure, quella stessa cosa, non avrei esitato a scriverla un po' di tempo fa, ma ora non mi va.
Poi leggo un commento, fra quelli lasciati, nel quale Maria dice che quello che scrive se lo tiene per sé e se lo rilegge quando ne sente il bisogno.
E, come la sua, ho altre testimonianze di persone che scrivono, ma che non si sentono pronte alla condivisione.
Chi invece, come me, cerca di tenere aperto un blog, normalmente butta in pasto al web quasi tutto quello che gli passa per la mente o per il cuore.
E chissà poi perchè?!
In questo momento, forse, anch'io non mi sento pronto per la condivisione, ma, come vedete leggendo questo post, quanto è difficile rinunciarvi!

sabato 16 ottobre 2010

Quattro passi... con Ben - Undicesima puntata

L’estate che precedette l’inizio delle superiori fu caratterizzata dal massimo dei divertimenti. Avevamo formato un gruppetto molto affiatato di ragazzi, tutti del Nespolo, e spesso ci riunivamo a casa di qualcuno di noi per giocare.
A casa mia organizzammo magici ed infiniti tornei di ping pong.
Al circolo facemmo molti tornei di tennis sotto il sole dei pomeriggi di luglio.
Eravamo abbronzantissimi, neri come il cappello di un prete.
In quel periodo andavano di moda molti giochi radiofonici e spesso tentavamo la fortuna telefonando. La maggior parte delle volte era impossibile prendere la linea e così finivamo col giocare a carte oppure a battaglia navale a gruppi o ad altri giochi ancora. Un posto di ritrovo di questi incontri estivi era a casa di Elena, tutti seduti attorno ad un tavolo sotto un pergolato di viti.
Quello era il posto che preferivo, perché era raccolto e fresco allo stesso tempo; inoltre potevamo fare anche un po’ di confusione perché nessuno veniva infastidito.
Quella divenne la sede delle nostre giornate estive.
“Dove andate?” chiedeva la mamma a me e a mio fratello quando partivamo.
“Da quei ragazzi” era la risposta.
Quelle tre parole avevano un preciso significato, e cioè:
“Usciamo, andiamo a casa di Elena a giocare con Massimo, Moreno, Fabrizio, Gianluca, Elena, Tiziano, …”
La sera, dopo cena, il ritrovo preferito era sul muro di Renatino. Era il muro di cinta della casa dove abitava Renato, un ragazzo della mia età, alto e magro, talmente magro che questa sua caratteristica predominava sulla sua altezza, tanto da fargli affibbiare quel soprannome.
Lì, in un turbine di battute, si rideva a crepapelle e l’indubbio protagonista era Massimone, un ragazzone grosso, di qualche anno più grande, oggi avvocato, che ci deliziava con le sue storie.
Noi ragazzi più piccoli restavamo incantati a sentire le sue avventure. Mischiava una piccola parte di verità a una grossa dose di balle, ed il risultato era quello di ascoltare dei veri e propri racconti degni del più bugiardo degli artisti. Ogni sua frase era una battuta. Questo per le storie normali. Quando poi parlava di donne era il massimo dell’apoteosi. Per capire bisognava provare a immaginare un film molto spinto e comico allo stesso tempo: ebbene, il risultato sarebbe stato un film da ragazzi.
Era geniale e con la sua ilarità coinvolgeva tutti in serate che sarebbero state irripetibili solamente pochi anni dopo, perché con l’avvento dei motorini, il paese perse d’importanza e tutti cominciarono a cercare divertimenti più lontano.

mercoledì 13 ottobre 2010

Quattro passi... con Ben - Decima puntata (compresa la restante mezza)

Era anche il tempo delle partite di calcio al campino.
Avevamo scoperto un nuovo campo e lo avevamo attrezzato di tutto punto. Era all’interno di un vivaio, e il titolare, Lorenzo, era un uomo molto burbero. Ci aveva dichiarato guerra.
“Se vi trovo ancora qui, chiamo i carabinieri!” aveva urlato l’ultima volta che ci aveva sorpresi. Noi eravamo scappati a gambe levate, ma non ci aveva impauriti più di tanto. Così ritornammo ancora molte volte.
Un giorno ci scoprì di nuovo, ma, contrariamente al solito, apparve senza urlare.
“Oggi qualcuno di voi tornerà a casa a piedi!” e così dicendo se ne andò.
Mentre andava via, vedemmo che dalla sua auto usciva qualcosa: sembrava una ruota.
Di colpo capimmo e corremmo verso le biciclette: alcune erano scomparse. Mancavano la mia e quella di mio fratello.
Quel giorno tornammo veramente a piedi, come aveva detto Lorenzo, ma non volevamo dirlo al babbo e alla mamma, perché sicuramente avrebbero dato ragione a lui e ci avrebbero brontolato per aver continuato ad andare al campino pur sapendo che il vivaista ce lo aveva impedito.
Non aspettammo un minuto di più e andammo, a piedi, a casa di Lorenzo.
Sul piazzale stavano lavorando; c’erano due camion che gli operai stavano caricando di piante. Io e Mauro ci appostammo dietro la siepe di recinzione per studiare la situazione e poco dopo vedemmo le nostre biciclette, appoggiate al muro della casa, proprio sotto una finestra, dentro la quale si intravedeva una cucina. Dovevamo attraversare tutto il piazzale per arrivare fin là e questo non era semplice; ci avrebbero visti sicuramente e addio biciclette.
Dovevamo inventare qualcosa. Allora ci venne in mente che dalla casa di Elena c’era una stradina che portava fino alla casa di Lorenzo. La prendemmo e arrivammo a circa dieci metri dalle biciclette. Era quasi fatta, ma ad un tratto uscì Lorenzo, che si sedette sulla sua panchina per vedere le operazioni di carico.
“Accidenti, proprio ora!” esclamò Mauro.
“Che facciamo?” domandai.
“Aspettiamo, prima o poi si dovrà alzare” rispose.
Nel frattempo ci eravamo mimetizzati fra dei filari di edere, ma non potevamo stare lì per molto tempo, perché gli operai ci avrebbero potuto vedere, richiamando l’attenzione di Lorenzo.
“Ho un piano” dissi. “Lui ha le biciclette, ma non sa che sono le nostre. Avviciniamoci a lui normalmente e quando siamo vicini corriamo velocemente verso le biciclette, le prendiamo, scappiamo via e buonanotte Lorenzo!”
“E se le ha legate?” disse Mauro dubbioso.
“Faremo una figura di cacca e gli chiediamo anche scusa” risposi sorridendo.
“OK.”
Era deciso. Avremmo riconquistato le nostre biciclette. Il mio cuore batteva a mille all’ora, ma più per la eventuale figuraccia che per la paura.
Uscimmo fuori dalle edere e ci incamminammo verso Lorenzo, che capì subito. Fece la mossa di alzarsi dalla panchina, ma noi fummo più svelti di lui; cominciammo a correre e divorammo quei pochi metri che ci separavano dalla meta. Prima Mauro, poi io, saltammo sopra le biciclette, che fortunatamente non erano legate, e scappammo via urlando: “Sono nostre queste, ci rivediamo al campino, caro Lorenzo!”
Egli si mise a ridere e ci urlò dietro a tutta voce: “Non penso, delinquenti!”
Ebbe ragione lui. Infatti, alcuni giorni dopo, il campino non c’era più. Le porte non c’erano più, le bandierine del calcio d’angolo erano accatastate da una parte ed al posto del campo c’erano tanti solchi. Lo aveva lavorato per piantarci le piante.
E così dovemmo dare l’addio alle nostre partitelle.
Per giocare un po’ a pallone, dovemmo iscriverci in una squadra di calcio, ma non fu altrettanto divertente.
Le medie stavano terminando, c’era un esame da affrontare, ma soprattutto c’era da scegliere come proseguire gli studi. C’era una nuova scuola che si stava facendo strada e che attirava particolarmente la mia attenzione: era quella per Ragionieri Programmatori. Si stava entrando nell’era dei computer ed io volevo entrarci in prima persona.
Sapevo che a Pistoia non c’era quella scuola, che avrei dovuto fare il biennio della scuola di Ragioneria e poi andare a Firenze. Quest’avventura mi affascinava e fui deciso scegliendo Ragioneria per proseguire poi in quel progetto. Anche Riccardo, Andrea e Gigi fecero la mia stessa scelta. Così anche Elena e Maria Grazia. Fabrizio decise di smettere per andare a lavorare, mentre Gianpiero scelse Geometri.
Le nostre strade cominciavano a separarsi. Eravamo di fronte a scelte importanti per il nostro futuro. Gli ultimi tempi delle medie furono caratterizzati più da questa ansia, che dalla paura dell’esame.
Nemmeno la gita di Ravenna ci rese quella serenità che avevamo alcuni mesi prima.
Fui promosso con il massimo dei voti: “Ottimo”.
I miei genitori, al settimo cielo per quel risultato, non influenzarono la mia decisione per il proseguimento degli studi e di questo non smetterò mai di ringraziarli.
Ero pronto per le superiori.

lunedì 11 ottobre 2010

Quattro passi... con Ben - Ottava puntata e mezzo

Facemmo altre feste: da Andrea, da Riccardo, da Elena.
Già, da Elena: fu la festa più triste.
Lei aveva preparato tutto molto bene, in garage: musica, tramezzini, bibite, luci, c’erano persino i festoni attaccati da una parete all’altra. La musica iniziò e noi ragazzi volevamo ballare con le ragazze, solo che loro ormai non ci consideravano più, poiché si sentivano molto più grandi di noi. Ma allora perché ci avevano invitati? Probabilmente i genitori avevano voluto soltanto i ragazzi compagni classe. Cominciarono a ballare fra loro e noi lì, come dei fessi, a guardarle. Chiedemmo nuovamente di ballare, ma alcune ci chiamarono “piccoletti”, mentre Elena cercò di mediare. Ormai era guerra dichiarata e così iniziammo a chiamarle di tutti i colori, fino alle offese. Intervenne la mamma di Elena che, in quattro e quattr’otto, mandò tutti a casa.
Ho ancora il ricordo di Elena seduta sulla sedia con le lacrime agli occhi. La sua festa era terminata nel peggiore dei modi e noi maschi eravamo stati davvero stupidi. Era triste, quasi ciondolava su quella sedia. Mi avvicinai a lei, mentre me ne andavo. “Mi dispiace” dissi. Non seppi dirle altro. Lei non mi rispose. Si alzò e se ne andò in casa senza salutare. Non venne più alle nostre feste.

sabato 9 ottobre 2010

Su Ben... oltre è arrivato...

... il momento dei saluti.
Un'esperienza che si chiude non è mai un momento felice, anche quando si tratta di un blog.
Rimarrà al suo posto, perchè non voglio perdere niente e nessuno di quella esperienza.
Intanto però è arrivato il momento dei saluti.
E non posso negare una certa tristezza.

Quattro passi... con Ben - Ottava puntata

La voglia di nuove avventure e conoscenze si faceva sempre più forte.
Andrea aveva sentito parlare di una discoteca, il JB, dove ci si divertiva molto. Anch’io ne avevo sentito parlare da altri ragazzi che frequentavano il circolo del Nespolo.
Andrea e Riccardo ci andarono e rimasero entusiasti. I miei genitori, invece, non mi permettevano di andarci, dicendo che non era un ambiente sano, che avrei potuto incontrare persone sconosciute di cui non c'era da fidarsi.
Per dire la verità le discoteche non mi sono mai piaciute, ma non potevo rimanere tutte le domeniche da solo. Così una domenica mi decisi. Convinsi i miei genitori e con Andrea e Riccardo prendemmo l’autobus per andare al JB.
Era la prima volta che entravo in una discoteca. Era tutto buio, con poche luci colorate che andavano a ritmo di musica, musica che era a tutto volume. Un sacco di gente che ballava e che sudava. Non riuscivo a capire una parola di quello che mi veniva detto e non riuscivo a farmi sentire, a causa della mia voce. Non vedevo l’ora di andarmene. Non mi divertii per niente e quando fui a casa fu come una liberazione. Ci ritornai poche altre volte ed anche in futuro ho sempre frequentato poco le discoteche.
Intanto le radio locali e le feste in casa si stavano moltiplicando.
Ci piaceva ascoltare i programmi radiofonici, quelli in cui si facevano le dediche, magari con la speranza che ce ne fosse una per noi. Incominciammo a pensare di fare una festa in casa, così racimolammo uno stereo, dei dischi e colorammo delle lampade con le tempere. Non ci restava altro che chiedere un po’ di spazio in casa di qualcuno di noi ed invitare alcuni amici ed alcune amiche.
La prima festa fu a casa mia, in un pomeriggio piovoso.
Avevamo sistemato la cucina a regola d’arte. Togliemmo il tavolo dal centro, sistemammo le sedie ai quattro lati, mettemmo le luci agli angoli della stanza ed il banco con lo stereo da una parte. Per casse avevamo collegato le radio al giradischi e tutto funzionava a meraviglia. Il cibo e le bibite erano pronte. C’era tutto. Giunse l’ora dell’inizio, ma eravamo solo Riccardo, Andrea ed io. Era strano che nessuno si facesse vedere.
“A che ora hai fissato con gli altri?” chiesi ad Andrea.
“Alle tre” rispose seccato.
“Sono solo le tre e un quarto” disse Riccardo. “E poi sta piovendo, magari sono in ritardo per questo.”
Ad un certo punto sentimmo un’auto entrare nell’aia. Erano la Maria Grazia e la Silvana, detta Silvanina per la sua altezza.
Non arrivò nessun altro.
Cinque, eravamo solo in cinque. Ma che tipo di festa è una festa con cinque persone? Al massimo potevamo giocare a carte, con uno che guardava. Avevamo messo tanto impegno per cinque persone.
Eravamo delusi, ma non ci abbattemmo. E così lo stereo cominciò a suonare e noi cominciammo a ballare.
La Silvanina fu una vera scoperta: era scatenata e molto divertente. Maria Grazia, la cugina di Andrea, era più compassata ma altrettanto simpatica. Andammo avanti con musica e tramezzini per un paio d’ore e, quando i genitori tornarono a prendere i propri figli per riportarli a casa, ci salutammo.
“Bella festa” disse la Silvanina. “Mi sono proprio divertita, bravi.”
Non seppi interpretare quelle sue parole: diceva sul serio o voleva prendere in giro? Davvero si era divertita o lo aveva detto solo per pietà? Insomma, una festa con cinque persone poteva essere una bella festa?
Restammo con il dubbio, ma per pochi giorni.
Quelli che non erano venuti ci dissero in seguito che avrebbero voluto, ma non erano potuti venire, chi per un motivo, chi per un altro. Inoltre non avevano potuto avvertire perché non avevano trovato il numero sull’elenco telefonico. E come potevano? La mia famiglia non aveva il telefono.

sabato 2 ottobre 2010

Quattro passi... con Ben - Settima puntata

La nuova disposizione dei banchi, non più a coppia ma disposti su tre lunghe file orizzontali, favorì la conoscenza di altri ragazzi. Mi ritrovai fra Maurizio e Roberta. Riccardo aveva scelto Andrea, una fila più avanti.
Maurizio non andava molto bene e spesso mi chiedeva di suggerirgli. Era un ragazzo molto divertente e buffo. Ridevamo molto, cercando ovviamente di non farci vedere, ma era difficile e fummo scoperti; così ci separarono e mi trovai di nuovo accanto a Riccardo e Andrea. Le cose cominciarono ad andare per il verso giusto. Eravamo più grandi e ricominciammo a frequentarci anche a casa, dove studiavamo un po’, e poi via, di corsa a giocare a pallone; Andrea era una vera e propria frana, lui amava andare in bicicletta, infatti più tardi si sarebbe dato al ciclismo. Perdeva sempre nei nostri incontri uno contro uno, mentre il vincitore era sempre Riccardo, che forse ancora oggi gioca a calcio. Io, che non avevo dribbling (i tecnici la chiamano mancanza di personalità), vincevo con Andrea e perdevo da Riccardo.
Quando un giorno il professore di Educazione Tecnica ci chiese di fare un lavoro in legno, noi tre decidemmo di costruire uno stadio di calcio. Il nostro modello era San Siro: campo centrale, tribune a forma rettangolare disposte su due piani. Ci sembrava facile da realizzare e cominciammo a fare il disegno. Io mi divertivo molto a disegnare stadi: ovali, rettangolari, rotondi come il Maracanà di Rio de Janeiro. Disegnare San Siro fu un gioco da ragazzi. Adesso bisognava trovare il legno. Ce ne occorrevano alcuni fogli. Andammo così alla ricerca del compensato.
Con le nostre biciclette, in fila indiana per le stradine di campagna, andammo a Sant’Agostino a cercare una falegnameria ben fornita di cui avevamo sentito parlare.
La trovammo, ma non ci dettero ascolto, perché lavoravano grossi quantitativi per altre aziende e falegnami; figuriamoci se potevano prendere in considerazione tre mocciosi come noi.
Eravamo quasi sul punto di desistere quando una voce ci richiamò. “Ehi!” disse un signore con una barba lunga cinquanta centimetri ed un pancione grosso e rotondo, molto somigliante a Mangiafuoco di Pinocchio. “Ehi, ragazzi, venite qua, forse ho quello che fa per voi. Ho qui due fogli di compensato che a noi non servono. Sono un po’ ingombranti, ma forse ce la fate a portarli via. Ve li regalo.”
Era quello che ci voleva. Adesso avevamo il problema di trasportarli a casa.
Provammo a piedi con il compensato legato alla bicicletta, ma non funzionava molto. Erano troppo grandi, più o meno come un finestra. Facemmo alcune centinaia di metri quando la fortuna ci venne incontro. Per quella stradina stretta e deserta in mezzo alla campagna, passò un contadino che mi riconobbe.
“Tu sei il figlio del barista” disse. “Dove state andando con quel paravento più grosso di voi?”
“Al Poeta, a casa sua” risposi indicando Andrea.
“Continuate, che fra poco arrivo.”
Dopo alcuni minuti sentimmo un rumore di motore, con qualcosa che scuoteva quando passava sopra le buche della strada. Era il contadino, con il suo trattore ed il rimorchio dietro.
Ci sorpassò e si fermò.
“Adesso vi porto tutti al Poeta. Sistematevi in prima classe!” disse aprendo le sponde del rimorchio.
In un attimo salimmo sopra, con le biciclette ed il legno. Il trattore partì e ci portò a destinazione. Ringraziammo il contadino per la sua bontà. Cominciammo a lavorare e in poche volte lo stadio fu costruito.
Eravamo proprio in gamba noi tre.

venerdì 1 ottobre 2010

Sono contento per te!

Chissà quante volte abbiamo detto questa frase.
Eppure, nella maggior parte dei casi, sono convinto che sia più un modo di dire che un reale sentimento.
Che cosa stiamo provando quando siamo spinti a dirlo?
Siamo realmente contenti per quello che sta accadendo ad un'altra persona?
Magari proviamo anche un pizzico di invidia, perché vorremmo essere al suo posto.

Sono contento per te!
E allora succede qualcosa a livello interiore e fisico, ci sentiamo gonfiare il petto da una gioia incontenibile,  mista ad un senso di commozione che a stento riusciamo a trattenere e che cerca di sfociare in un sorriso.
Non è una sensazione frequente, molto più facile da dire che da provare, ma quanto è bella!