sabato 31 dicembre 2011

Buon Anno!

Ogni anno ci auguriamo che l'anno nuovo sia migliore del precedente, che sia pieno di serenità, pace, salute, amore, ricco di ogni bene.
Nella speranza che sia la volta buona, auguro a tutti voi, amici del Rifugio, buon anno!

Da Il Rifugio di Roberto


BUON 2012!

venerdì 30 dicembre 2011

Riflessione, andando verso la fine dell'anno

Puoi dimenticare la persona con la quale hai riso, mai quella con la quale hai pianto.

(K. Gibran)



martedì 27 dicembre 2011

"Ben... oltre" ha compiuto quattro anni.

Quattro anni fa aprii per la prima volta un blog.
Allora portava semplicemente il mio nome, che poi cambiai in "Ben... oltre".
Nel corso del tempo l'ho chiuso, poi l'ho riaperto, fino a...

lunedì 26 dicembre 2011

Quattro passi... con Ben - Cinquantottesima puntata

La formazione per il giuramento era fatta. Io ero destinato all’angolo sinistro del primo plotone, vuoi per la mia altezza (minima), vuoi per le mie capacità di tempismo nell’eseguire gli ordini impartiti. In sostanza ero quello che doveva dettare il ritmo ogni volta che il plotone girava per invertire la direzione di marcia.
Ogni giorno che passava faceva aumentare la voglia di vedere i miei familiari. Sapevo bene che non sarebbero venuti al giuramento, perché il viaggio era lungo e strapazzante, e poi quello era stato l’accordo prima di partire. Tuttavia alcuni giorni prima dell’avvenimento cercai di convincerli a venire.
Ricordo che la sera che telefonai, i cellulari all’epoca non c’erano, cercai un bar con il telefono a scatti e non a gettoni, per non correre il rischio di rimanere a mezzo con il discorso. Ma era troppo tardi ed era impossibile organizzare il loro lavoro per partire per Chieti con così poco tempo di preavviso.
Era ciò che già sapevo, ma ci rimasi male ugualmente.
Così decisi che quel giorno sarei rimasto in caserma, in servizio volontario, per favorire la libera uscita di un qualsiasi altro collega sconosciuto che avesse avuto i propri cari al seguito.
“Bene!” urlò il sottufficiale di giornata. “Adesso ho bisogno di alcuni volontari per i servizi del giorno del giuramento. Vorrei che coloro che non riceveranno visite si facciano avanti e alzino la mano.”
La alzammo in pochi e ci contò.
Nel frattempo Pilone mi dette una botta sulla schiena da dietro e mi urlò sottovoce nell’orecchio:
“Ma che fai, sei scemo? Forse pensi che tutti quelli che non hanno alzato la mano c’hanno i genitori, c’hanno?”
E proseguì: “Tu esci con me e con i miei genitori, non mi fare incazzare, non mi fare!”
In pochi secondi capii che aveva ragione lui; al successivo contrappello dei volontari ne mancò uno e, nonostante le richieste insistenti del sottufficiale, non fu trovato.
Il giorno del giuramento fummo svegliati molto presto in modo da essere pronti e perfetti in ogni piccolo particolare. La cerimonia si svolse sotto un sole rovente e tutto andò per il meglio. I complimenti si sprecarono, per tutti. E fu una piccola soddisfazione dopo tanti giorni di allenamenti.
Poi ci andammo a cambiare per la libera uscita. Pilone uscì in divisa e come promesso, mi fece uscire insieme a lui e ai suoi genitori, mescolati insieme a tutte le altre persone che, a centinaia, affollavano la caserma e che erano intenti ad uscire.
Ma appena fuori li fermai un attimo e dissi loro:
“Pilone, ti ringrazio e ringrazio anche voi per avermi invitato a trascorrere questa giornata in vostra compagnia, ma oggi è la vostra giornata e dovete stare insieme, dopo un mese, senza estranei fra i piedi.”
Pilone insistette: “Dai Robbé, vieni con noi.”
“Ti ringrazio, davvero, ma non preoccupatevi, io andrò a Pescara a farmi un bel bagno. Buona giornata a tutti quanti.”
E così me ne andai a Pescara, in perfetta solitudine.
Presi il mio autobus, passeggiai per Pescara, presi il sole sulla spiaggia, feci il bagno e pensai per tutto il giorno a tutte le giornate che non avevo trascorso insieme ai miei genitori, alla partita di pallone alla quale non avevano potuto assistere, alla domenica che non avevamo potuto trascorrere insieme, alla gita che non avevamo potuto fare, alla recita che non poterono vedere, alle festività che non avevamo potuto festeggiare insieme, a tutte le altre volte in cui avevo dovuto dimostrare un’età più grande di quella che in realtà avevo, poiché avrei dovuto agire senza la loro presenza.
E tutto questo per il loro particolare lavoro che li teneva impegnati dall’alba fino a mezzanotte, fatto di sacrifici, frustrazioni, fatiche e rinunce, povero di soddisfazioni, ma ugualmente fatto con impegno e dedizione, per permettere ai figli di avere una vita diversa dalla loro, un futuro migliore.
La sera, al rientro, ognuno cercò di raccontare come aveva trascorso la giornata insieme alla famiglia e alle fidanzate. Io stavo a sentire e, al dolce suono di quelle storie altrui che avrei voluto fare mie, mi addormentai.
Finalmente il Car stava per finire ed arrivò il giorno del trasferimento: domenica 28 luglio.
Ricordo quel giorno anche perché dovetti rinunciare al matrimonio di una mia cugina, la più cara di allora e di oggi.
Sul piazzale fummo divisi in base alle destinazioni.
Dei miei amici nessuno era destinato ad andare a Montichiari.
Con Pilone, il Colonnello, Alberto e Roberto, ci abbracciammo un po’ commossi, perché sapevamo benissimo che non ci saremmo più visti né sentiti. Ci augurammo buona fortuna, poi ognuno si diresse verso il suo nuovo gruppo.
Il mio era composto da poche persone, una dozzina, al massimo quindici.
Cominciammo a parlare e notai in uno di essi un accento familiare.
“Sei toscano?” gli chiesi.
“Di Pistoia” mi rispose.
“Anch’io. Ciao, sono Roberto!”
“Ciao, sono Federico!”
Nacque così, nel piazzale di quella caserma, un’amicizia che ancora oggi continua.

domenica 25 dicembre 2011

Che cosa resterà di questo Natale?

Dopo ore di silenzio, nel pomeriggio le strade si sono ridestate, poi è scesa la sera.
Il giorno di festa adesso volge al termine e, dopo corse più o meno affannose, tutto torna alla normalità. 
O quasi.
Avevo alcuni pensieri che volevo tradurre in immagini, poi mi sono accorto che quelle stesse immagini non avevano niente a che vedere con un giorno di festa. Allora mi sono detto di tradurli in parole, ma poi mi sono accorto che quelle stesse parole non si conciliavano con un giorno di festa.
E allora quei pensieri sono rimasti tali.
Davanti a me le lampadine dell'albero continuano a rincorrersi.

domenica 11 dicembre 2011

Quattro passi... con Ben - Cinquantasettesima puntata

Durante quel periodo conobbi solamente una persona che fosse estranea al mondo militare. Accadde a Pescara un sabato pomeriggio che ero uscito da solo.
Mi feci un bagno, presi un po’ di sole, e nel tardo pomeriggio decisi di telefonare a Cinzia per comunicarle che quella notte avevo sognato che il Giuba era diventato padre e, poiché la nascita era prevista in quei giorni, volevo informarla di questo presentimento.
Mi recai in una piazza del centro, ricca di cabine telefoniche e in attesa del mio turno mi misi seduto sopra una panchina giocherellando con il sacchetto dei gettoni.
“Buonasera” disse un signore sulla cinquantina. “Posso sedermi oppure è occupato?”
“Prego, venga pure, è libero” risposi.
“Sei in servizio di leva?” continuò.
Evidentemente il taglio dei capelli era un segnale ben visibile.
“Sì.”
“E dove?”
“A Chieti.”
“Ah, sei un carabiniere!”
“No, sono nell’esercito.”
Continuammo per un po’ la conversazione.
Io per natura sono sempre stato diffidente con gli sconosciuti ma nonostante ciò non mi dispiaceva parlare con quell’uomo, di cui ancora non conoscevo il nome. Forse avevo voglia di parlare anche per interrompere la solitudine che mi attanagliava in quel periodo, ed in quella giornata in particolare.
“Scusa, non mi sono ancora presentato” disse poi improvvisamente. “Mi chiamo Romolo.”
“Io Roberto, piacere.”
“Stai aspettando che si liberi una cabina?”
“Sì, devo chiamare la mia ragazza. Stanotte ho sognato che il mio migliore amico è diventato padre e siccome il tempo scade proprio in questi giorni …”
Non avevo intenzione di dirlo, ma mi uscì così, inavvertitamente.
“Stai a vedere che è nato!” concluse lui. “Ah, guarda, c’è una cabina libera.”
“Vado.”
Ed entrai in cabina.
Cinzia mi disse che il giorno precedente era nato Lorenzo e che l’indomani sarebbe andata a vederlo insieme ad altri nostri amici. Ero molto contento, ma mi dispiaceva non essere lì in quel momento. Ero commosso. Uscii dalla cabina con il sorriso sulle labbra, ma con gli occhi lucidi dalla commozione e mi diressi verso quella panchina sulla quale Romolo era ancora seduto.
“È nato davvero” gli dissi.
“Si vede che sei contento, ma ti dispiace di essere lontano, non è così?”
“Già.”
“Devi essere un bravo ragazzo. Ma non essere triste, anzi, sai cosa ti dico? Andiamo al bar, ti offro da bere così puoi brindare alla salute del neonato.”
Andammo in un bar a prendere una bibita, dopo mi volle far vedere il suo laboratorio, la sua lavanderia. Poi lo salutai perché era l’ora di riprendere l’autobus e tornare a Chieti.
“Tornerai a Pescara?” chiese.
“Non lo so, perché spesso sono di servizio, e poi il 28 parto per la mia destinazione.”
“Dove ti mandano?”
“A Montichiari.”
“Nella piana bresciana, non è male, è vicino al lago di Garda.”
“Tu sai dov’è? Allora solo io non so dove si trovi questo posto.”
“Sai come si chiama la caserma dove andrai?”
“No, non ancora.”
“Tu conosci il mio indirizzo. Facciamo una cosa: quando sei lassù inviami quello tuo, così ogni tanto potremo scriverci.”
Rimasi un po’ sorpreso per quella richiesta, comunque gli risposi di sì, convinto che comunque non lo avrei né rivisto né sentito. Invece, poiché per me una parola data va rispettata, una volta arrivato a destinazione gli mandai il mio indirizzo e lui cominciò a scrivermi delle cartoline, alle quali ogni tanto rispondevo. Poi, un giorno, arrivò una cartolina con su scritto: “Tanti saluti da Pescara. Con amore, Romolo.”
A quel punto realizzai che avevo conquistato un omosessuale.

lunedì 28 novembre 2011

lunedì 21 novembre 2011

Quattro passi... con Ben - Cinquantaseiesima puntata

Il caldo continuava ad imperversare e le nostre esercitazioni nel piazzale della caserma aumentavano di intensità con l’avvicinarsi del giuramento.
Un pomeriggio, durante le prove, il caporale mi avvicinò e mi disse:
“Seguimi, ti devo portare al comando.”
“Al comando? Perché?” domandai.
“Evidentemente sei uno importante” disse con tono di chi è costretto a subire un’ingiustizia da parte di un raccomandato.
Io non capivo e, un po’ irritato, gli dissi istintivamente in pistoiese:
“Senti, ‘oso, o tu me lo fai capire anche me o tu sta’ zitto. Io sarei uno importante? Ma proprio te tu me lo vieni a dire? Ma non l’hai visto che ho passato più tempo a fare servizi che fuori?”
“Ci sono visite per te.”
“Visite per me? E chi è?”
“E che ne so io!” chiuse il discorso lui.
Quando arrivai al comando fui accompagnato in una stanza e lì attesi alcuni minuti.
Poi entrò il capitano insieme ad un'altra persona vestita in borghese.
“Bene” disse il capitano. “Dunque è lei il soldato in questione!” Anche lui usò il tono che aveva usato il caporale. Io nel frattempo ero scattato sugli attenti. “Riposo! Adesso vi lascio soli.”
E così dicendo se ne andò.
L’altra persona si presentò, con nome e grado che non ricordo: era un militare.
“Sono un amico di Amedeo.”
Amedeo era un amico di famiglia. “Mi ha parlato di te, per vedere se potevo fare qualcosa per avvicinarti a casa.”
“Non ho mai chiesto questo tipo di aiuto” risposi orgogliosamente.
Per un attimo mi guardò e poi, come se io non avessi proferito parola, riprese:
“Oggi ho fatto visita qui e mi sono informato. Ascolta, la situazione è questa: la tua destinazione è Montichiari.”
“Montichiari? Ma dov’è?”
“È vicino a Brescia. Io non posso fare molto. Potrei solo farti andare a Ravenna. Saresti un po’ più vicino a casa, però non so se ti conviene. Non se ne dice un gran bene. Montichiari è più lontano, ma si dice che lì si stia meglio. Di Pistoia, o Firenze, non se ne parla. Più di questo non mi è possibile fare. Adesso dimmi tu.”
“Cosa devo dire? Sono sorpreso della sua visita, non ho chiesto niente a nessuno, ma la ringrazio per il suo interessamento. Se Montichiari deve essere, che Montichiari sia. Chilometro più, chilometro meno, cosa sarà mai?”
“Va bene, allora lasciamo le cose come stanno. Ti auguro buona fortuna.”
E mentre ci stringevamo la mano gli dissi:
“Grazie di nuovo. Quando vede Amedeo, lo saluti e lo ringrazi tanto da parte mia.”
Mentre me ne tornavo alla mia compagnia, camminavo a passo lento e con la testa bassa, ripassando, una ad una, le parole di quel dialogo, sperando di non dover pentirmi un giorno di quella orgogliosa scelta. Ma come spesso mi era accaduto in passato, anche quella volta fu solo questione di attimi, poi ripresi la normale “andatura” di sempre.

domenica 6 novembre 2011

Quattro passi... con Ben - Cinquantacinquesima puntata

C’erano anche dei momenti di divertimento e di aggregazione fra di noi.
Le sere in cui potevamo uscire andavamo a mangiare quasi sempre in una pizzeria del centro, perché si spendeva poco. Ma quella era solo la seconda tappa delle libere uscite. La prima era andare alla Sip ed aspettare il proprio turno per telefonare a casa, per dire che andava tutto bene, che era caldo, ma non insopportabile, di non preoccuparsi che il cibo era buono e tutte quelle cose che servivano a fare stare meno in ansia chi era a casa. Questi erano gli argomenti riservati ai genitori.
Poi, altra scorta di gettoni e pronti per la telefonata più desiderata: quella con la fidanzata.
Credo che tutte le telefonate di noi militari si assomigliassero. Si raccontava la giornata che era trascorsa, si prediceva ciò che avevamo in programma per la serata, cioè dove saremmo stati a cena e dove avremmo aspettato la ritirata, per poi finire dichiarando il nostro amore e quanto fosse grande la mancanza di lei.
Dopo due telefonate così, la prima piena di mezze bugie rassicuranti, la seconda che ci riempiva di tristezza per non avere vicina la dolce metà, spesso si usciva dalle cabine telefoniche a pezzi, peggio di quando eravamo entrati, desiderosi di sentire le voci dei nostri cari.
Eh sì, la lontananza si faceva sentire, eccome! E nonostante ognuno di noi mettesse del proprio meglio per far finta di niente, le serate finivano sempre, in branda, raccontando fatti ed episodi della nostra vita sentimentale, per chi ne aveva una. Chi invece non l’aveva, ascoltava o parlava di altro. Ma c’era anche chi diceva di averla avuta o se la inventava di sana pianta. Le più buffe e più veritiere erano quelle che raccontava il Colonnello: questo era il soprannome che avevamo dato ad un avvocato di Montecatini, o paesi limitrofi, in virtù del suo aspetto e della sua istruzione. Aveva finito giurisprudenza, era un quasi avvocato, capelli corti di colore rosso e barbetta molto curata, fisico atletico.
Lui amava raccontare le sue prestazioni sessuali con le ragazze d’oltre confine. Da come le raccontava sembrava che già si fosse arruolato, ma nella legione straniera! Ogni storia aveva per protagonista una ragazza diversa, di un paese diverso.
“Dai Colonnello, facci sognare” lo esortavamo noi.
Lui, dopo aver fatto finta di riflettere un po’ per frugare nella memoria, cominciava:
“Ve l’ho raccontato di quando sono stato a Londra? Era il mese di...”
Il resto lo lascio immaginare a chi avrà la pazienza di leggere queste mie righe.
Era l’unico che era venuto in macchina, una Fiat Regata Energy Saving, una novità per quei tempi. E questo ci permise di andare spesso a Pescara a farci il bagno la sera o la domenica di libera uscita.
Le persone con cui avevo legato di più erano quattro o cinque: oltre al Colonnello c’era Roberto, di Quarrata, e due marchigiani: Pilone, soprannome dettato dalla sua stazza fisica, di Macerata, di cui non ricordo più il nome, ed Alberto, di Ascoli, il mio compagno di branda, che invece era l’esatto contrario di Pilone, alto sì, ma secco come un uscio.
Questi sono coloro che ricordo di più di quel mese del Car a Chieti. Tutti gli altri sono volti sfuocati, che vanno e vengono nella memoria. Così come la città di Chieti che non ricordo bene, nonostante ci abbia trascorso un intero mese. Se chiudo gli occhi e penso, ricordo vagamente una piazza a forma rettangolare, la strada della caserma, e i giardini della Villa. Tutto il resto è nebbia.
È come se la mia memoria avesse voluto cancellare gran parte di quel periodo.

mercoledì 2 novembre 2011

Fango

Primo novembre, giorno di festa, ma non per tutti.
La sveglia suona alle 5.00. Fuori è buio pesto, il ritrovo è fissato per le 5,30.
Esco con il mio zaino sulla spalla e mi avvio a piedi.
Siamo sette, un furgone pieno di attrezzi, due fuoristrada di cui uno adibito ad ambulanza.
Partiamo, alle sei dobbiamo incontrarci al casello dell’autostrada con due squadre provenienti da altre località. Ci siamo, entriamo in autostrada e formiamo una colonna, direzione Aulla.
Durante il percorso parliamo e scherziamo, anche da un mezzo all’altro, grazie alla radio.
Finalmente un po’ di luce, tanta quanto serve per far intravedere una bella giornata, appena velata.
Alle 8,00 arriviamo puntuali sul posto. Usciamo dall’autostrada ad Aulla, uscita riservata solo ai mezzi di soccorso. Il tempo sembra avere un conto in sospeso con quel posto. Fino a pochi chilometri prima era tutto sereno, adesso una nebbia sinistra avvolge l’intero paesaggio.
Il marrone del fango colora le strade, le piazze, i giardini. Ci sono mucchi di cose ad ogni angolo di strada: sedie, mobili, materassi, divani, carcasse di auto. Si intravede l’interno degli edifici al piano terra: vetri rotti, pavimenti marroni.
Una città devastata, una città fantasma. Non si vedono civili a giro, o almeno non sembrano tali. Le persone che incontriamo sembrano essere lì per aiutare nei soccorsi: vigili del fuoco, personale dell’esercito, protezione civile, persone, forse volontari, con stivali di gomma e giubbotti ad alta visibilità. Le strade sono percorse solo da mezzi di soccorso, che sono dappertutto. Sembra una città sotto assedio.
Andiamo al centro di smistamento volontari, un centro sportivo che conosco per averci accompagnato mia figlia, in passato, per le gare di nuoto. La palestra adesso è adibita a dormitorio per i volontari. Compiliamo la documentazione e veniamo inviati al palazzo comunale, dove c’è la centrale operativa. Il nostro capo sale e noi cominciamo a cambiarci, ci mettiamo gli stivali, tiriamo fuori caschetti e guanti, l’attrezzatura è tutta sui mezzi.
Paradossale: sembra che non ci sia lavoro per noi, ma il nostro capo attende, insiste, e otteniamo un incarico.
Ci presentiamo nel luogo indicato, sono quasi le 10,00. Il responsabile ci illustra la situazione. Le cantine di un palazzo enorme, abitato da cento famiglie, devono essere svuotate dal fango e dall’acqua. Sotto ci sono già un centinaio di volontari al lavoro, ma è molto buio, non si vede quasi niente. Noi abbiamo le luci. Andiamo giù a vedere. Entriamo, con cautela per non cadere nel fango che arriva quasi all’altezza degli stivali che a fatica riusciamo a sollevare per fare un altro passo. Sotto è come un labirinto, un ambiente enorme. Si sentono urla impartire comandi, il rumore dei mezzi meccanici che entrano ed escono con le pale piene di oggetti e fango.
Abbiamo individuato dove mettere le luci. Usciamo e prepariamo l’attrezzatura, poi alcuni di noi si immergono nuovamente nel sottosuolo, mentre altri restano fuori ad azionare il generatore. Troviamo una fessura nelle grate di ferro per far passare i cavi, alcuni minuti di lavoro ed un corridoio viene illuminato: è lunghissimo. Ci portiamo dall’altro lato e facciamo altrettanto: anche lì portiamo la luce, si può lavorare. Adesso anche noi possiamo spalare insieme agli altri. Si suda, si fatica, la pala comincia a scivolare fra le mani e a piegarsi di lato.
Arriviamo alle 12,30, decidiamo di fare una pausa, a turno. Alcuni vanno a mangiare, in due rimaniamo sul posto. Ho la sensazione di non arrivare a far niente. Ne parlo con i miei compagni, sostenendo che ci sono troppi tempi morti. Solamente per entrare e uscire dal sottosuolo occorrono diversi minuti.
In quel frangente arriva un responsabile e ci chiede se abbiamo una pompa sommersa. Sì, l’abbiamo, e la vasca della centrale termica diventa nostra. Dentro, fuori, dentro, fuori, nel giro di venti minuti la pompa è in azione per svuotare quell’ambiente.
Siamo di nuovi tutti insieme, più tardi alcuni andranno a svuotare la cantina di un altro palazzo, un po’ più piccolo.
Siamo coperti di fango, bagnati, sporchi, e anche un po’ affaticati.
Io continuo ad avere la sensazione di non aver fatto niente, di aver perso un sacco di tempo: troppi tempi morti, continuo a dire a chi cerca di farmi capire che abbiamo fatto quello che ci è stato richiesto.
Il buio incombe e la gente continua a lavorare nel sottosuolo, fuori i mezzi meccanici cercano di aspirare il fango dall’alto con tubi dal diametro esagerato. La nostra pompa nel frattempo si è bruciata, ha vinto contro l’acqua, ma contro il fango non ce l’ha fatta.
Torniamo per l’ennesima volta giù, bisogna smontare le nostre apparecchiature prima che sia buio. I punti luce adesso non servono più, quelle zone sono state ripulite alla meglio e la gente si è portata in un’altra ala delle cantine. Le nostre pale non ci sono più, ma non ci dispiace, chi le ha prese lo ha fatto per bisogno.
Siamo quasi pronti. Uno di noi apre il furgone, si siede sul paraurti e si addormenta così. Lo lasciamo dormire per un po’, poi è ora di tornare al centro dei volontari per il cosiddetto “scorporo”, per avvertire che la nostra squadra se ne va.
Dopo una lunga attesa, dovuta ad una lunga fila di persone che sono lì per lo stesso motivo, riprendiamo la strada di casa.
Siamo stanchi, ma non abbiamo perso la voglia di parlare e di scherzare fra noi. Lo facciamo anche da un mezzo all’altro, grazie alla radio.
Io sono ancora convinto di non aver fatto granché, ma forse hanno ragione i miei compagni: abbiamo dato luce dove serviva, abbiamo svuotato acqua dove serviva, abbiamo aiutato a spalare dove serviva.
Il pensiero non può che andare a quelle persone che oggi ci è parso di non aver visto, in una città sventrata, in una città fantasma, in una città dipinta con un solo colore: quello del fango.
Siamo arrivati a casa, è tardi. 
Termina così il primo novembre, giorno di festa, ma non per tutti.

domenica 30 ottobre 2011

Quattro passi... con Ben - Cinquantaquattresima puntata

Il cibo non era buono, ma a cena mangiai tutto. Già da quel primo giorno mi imposi di mangiare ugualmente, anche se, nei giorni successivi, a colazione, mi ritrovai a prendere spesso una porzione in più di biscotti per nasconderla nell’armadietto e mangiarla al momento opportuno.
Quando sembrava che la giornata fosse finita, l’ufficiale di servizio trovò il modo di infliggere una punizione perché un cubo, cioè un letto, non era stato rifatto a dovere. Così, fece pulire tutti gli armadietti, poi,dopo una serie di parolacce, ci dette il permesso di andare a letto.
Ovviamente il suo “benvenuto” non era altro che un modo per inculcare in noi il principio del rispetto e farci vedere chi comandava e che cosa era capace di fare, qualora lo avesse voluto. Ci riuscì benissimo e prima di ogni contrappello era nostra premura vedere se tutto, compresi noi stessi, era in perfetto ordine. Finalmente quella giornata finì e, grazie a Dio, riuscii ad addormentarmi.
La mattina seguente la sveglia mi trovò già in piedi.
Per evitare l’intasamento ai bagni, cosa inevitabile visto il grande numero di reclute presente in compagnia, mi alzai appena mi svegliai, anche se era un po’ presto rispetto all’ora in cui saremmo stati svegliati tutti, e con relativa calma mi feci la barba, mi lavai e cominciai a vestirmi in attesa di scendere per la ginnastica. Fu una scelta saggia, che portai avanti per tutto il resto dei giorni al Car.
La ginnastica consisteva in circa quindici minuti durante i quali un disco risuonava alto per tutta la caserma, impartendo ordini per farci fare esercizi fisici, alternati alla corsa, giusto per scaldarci e tenerci i muscoli tonici. Essendo in pieno luglio, questo comportava la prima sudata della giornata.
Alla fine dell’attività fisica c’era la colazione e tutti quanti dovevamo metterci in fila in attesa di entrare al “ristorante”. Prima si entrava più tempo avevamo per mangiare e rilassarsi qualche minuto prima di iniziare l’addestramento. Al contrario, più si rimaneva in fila fuori meno tempo si aveva per fare colazione e poteva capitare di dover uscire senza avere terminato di farla.
Nel giro di poche mattine imparai a gestire i giri di corsa della ginnastica, in modo da arrivare alla fine del tempo a ridosso della prima fila di attesa per entrare a fare colazione.
Con questo piccolo trucco mi ritrovavo spesso in prima fila e, se proprio andava male, in seconda.
Il periodo del Car non fu molto bello. Spesso ero di servizio e questo mi impediva di uscire la sera. Mi feci tanti servizi di piantone, cioè di guardia alle camerate, e tanti servizi in cucina, a lavare, pulire e vedere tutto quel ben di Dio di... sporco possibile ed immaginabile: grasso dappertutto, cibi trattati in modo barbaro, carne che veniva sbattuta ovunque prima di essere cotta e servita, pentoloni grandi come botti pulite con acqua, senza detersivi e poi asciugati con stracci inguardabili.
Una mattina che ero di servizio in cucina, cioè quello che detestavo di più, riuscii ad imboscarmi e stetti fino all’ora di pranzo in camerata senza che nessuno mi venisse a cercare. Ma poi mi tornarono in mente le parole che il Giuba mi disse l’ultima volta che ci vedemmo prima della mia partenza:
“Bobby, rimani te stesso.”
Fra tutto ciò che mi era stato detto prima di partire, quelle parole risuonarono alte dentro di me.
Da allora in poi cominciai ad affrontare la vita militare di petto, senza subirla passivamente in quanto impostami, ma con il cipiglio, il carattere e la mia personalità.
Senza cercare di scansare quello che capitava, mi accorsi che le cose diventavano più semplici. Era molto più facile per me compiere le cose quotidiane, anche se impreviste, con naturalezza, come una cosa che dovendo esser fatta, valeva la pena di farla bene.
Così facendo conquistai la fiducia ed il rispetto degli altri commilitoni, molti dei quali, a distanza di tanti anni, hanno solo un volto e non più un nome.

Un ricordo per...

Mercoledì scorso è stata giocata la finale di un torneo di calcetto intitolato alla memoria di un collega morto per infortunio sul lavoro circa un anno e mezzo fa.
All'epoca scrissi un post intitolato La sosta, dal quale ho ricavato una canzone, adattata ad una musica già esistente, che è stata fatta ascoltare prima della premiazione della squadra vincente.
Sono stati minuti di intensa emozione che ognuno ha vissuto in maniera personale, soprattutto chi ha conosciuto la persona in questione. Alla fine è arrivato un applauso che è terminato soltanto quando lo speaker ha deciso di riprendere la parola.

domenica 23 ottobre 2011

Quattro passi... con Ben - Cinquantatreesima puntata

La notte trascorreva molto lentamente e non riuscivo a prendere sonno, allora pensavo a come sarebbero stati i giorni successivi. Roberto invece si addormentò subito. Io ogni tanto mi alzavo e fissavo il buio oltre i finestrini.
Quando l’alba arrivò, eravamo nelle Marche, e poco dopo arrivammo a Pescara. Trenta minuti di autobus e Chieti fu raggiunta.
Chiedemmo della caserma ed in pochi minuti la raggiungemmo. Insieme a Roberto ci fermammo davanti a quel portone d’ingresso, come se ancora potessimo decidere se entrare o meno.
Ognuno di noi pensava qualcosa. Io pensavo che una volta varcata quella soglia, mi sarei estraniato dal mondo reale per un anno intero, un anno di tempo perso.
Poi mi risvegliai dai miei pensieri e dissi: “Dobbiamo farlo? Allora andiamo!” E accelerai il passo per entrare come se, entrando prima, avessimo potuto accorciare quel periodo.
Roberto, che fino ad allora aveva fatto il mattacchione, lo spavaldo, ora sembrava più piccolo e mi viaggiava dietro, come se volesse mandare me in avanscoperta: adesso aveva paura.
Suonai e il portone si aprì. Entrammo, insieme ad altri, e il portone si chiuse alle nostre spalle. Ci controllarono i documenti e la cartolina, poi un altro portone si aprì. Entrammo definitivamente, in fila indiana, e anche quella seconda porta si chiuse dietro di noi.
Il mondo, quello che fino allora era stato il mio mondo, era definitivamente fuori, ed io stavo iniziando una nuova esperienza, che non avevo scelto, ma che pur dovevo fare.
Quella giornata fu veramente dura, anche da un punto di vista fisico.
Era cominciata un’esperienza di cui avevo sentito parlare molte volte, riferita ad altri, e che adesso, invece, cominciavo a vivere sulla mia pelle. Un qualcosa di sconosciuto che mi rendeva ansioso. Con questo stato d’animo iniziai i primi momenti all’interno della caserma.
Dopo la notte insonne, la giornata proseguì fra continue file, per lo più sotto il sole, al caldo, per sbrigare tutte le formalità di ingresso: identificazione, assegnazione delle mansioni, consegna dei vestiti, visita medica, assegnazione della compagnia, assegnazione della camerata e non so quante altre cose ancora. Finalmente la sera arrivò. Entrai in camerata distrutto, con i vestiti del giorno precedente ancora addosso, completamente inzuppati di sudore. Il caldo in quella stanza enorme era opprimente, le finestre non si potevano aprire completamente, con delle fessure orizzontali che le rendevano simili a grandi persiane trasparenti. La voglia di fare una doccia era molto forte, ma non era possibile farla, perché ogni compagnia aveva un turno da rispettare.
Dovevamo pertanto usufruire dei bagni, corredati dei soli lavandini, con dei rubinetti dai quali usciva solo un filo d’acqua. Tutto ciò era demoralizzante. Mi lavai alla meglio e mi buttai sulla branda che mi era stata assegnata, ma ero talmente stanco che non riuscii ad addormentarmi.
Parlai di quelle prime ore con gli altri; eravamo tutti nelle stesse condizioni e poco dopo irruppe il silenzio. Ognuno di noi, con gli occhi spalancati rivolti verso il soffitto, rimase immerso nei propri pensieri. Mi venne in mente la sera che con Cinzia dovevamo andare a vedere il concerto degli Spandau Ballet, che fu rinviato per motivi di salute di un componente del gruppo. Noi, però, ci vedemmo ugualmente ed andammo in centro a Firenze, in una bellissima sera di aprile. Quella stessa sera ci mettemmo insieme. Mi venne in mente poi la nostra gita sulle Apuane e quella successiva sul Trasimeno. Erano passati pochi mesi, addirittura poche settimane, da quegli avvenimenti. Tuttavia mi sembravano già così lontani quei momenti. E Cinzia poi… mi faceva male il solo pensarci.

venerdì 21 ottobre 2011

Se ci sei batti un colpo

Nell'ottobre del 2008 aprii il Rifugio e quest'anno non mi sono nemmeno ricordato di festeggiare il suo compleanno. Vergogna, Ben!
Che sia il segno del tempo... che passa? La memoria manda i suoi saluti? Tutto può essere.
Fra chiusure e riaperture non sono mai riuscito a staccarmi da questo spazio, così come è successo con "Ben... oltre", anch'esso in vacanza per molti mesi.
Se avessi guardato i risultati dell'auditel li avrei chiusi tutti e due da un bel pezzo, ma sono riuscito a tenere duro, ad andare avanti per la mia strada, a resistere alla tentazione di chiudere definitivamente.
In questo percorso ho incontrato alcune persone che ho imparato ad apprezzare e non vi nascondo che, quando non intervengono per un po' di tempo, sento la loro mancanza e il blog mi sembra deserto.



mercoledì 19 ottobre 2011

Provare a cantare...

Non vedi l'ora di provare a cantare ciò che hai scritto,
ma nel momento cruciale ti accorgi che

martedì 18 ottobre 2011

La mia risposta per Narcisista

Narcisista ha risposto così al mio post sul forum Leggere e Scrivere del Corriere della Sera:

"Secondo me una forma (non grave, sia chiaro) di narcisismo è anche quella di pubblicare tre libri con una casa editrice a pagamento, se non ho capito male e inteso peggio, per sentirsi scrittore e neppure esordiente.
Sentendoselo pure confermare dall'ottimo Di Stefano, mica pizza e fichi.
Nell'ipotesi poi, come auguro di cuore, che un quinto libro venga pubblicato da un Signor Editore... beh, allora si vedrà.
Tutti abbiamo le nostre passioni, ma ogni tanto riguardarsi non guasta: altrimenti, poiché ognuno di noi ha qualcosa da dire, raccontare, scrivere etc., tra poco la foresta amazzonica rimarrà un lontano ricordo e quei simpatici cosi chiamati "alberi" li potremo ammirare soltanto in cartolina.
Con simpatia.
N."

Già avevo cominciato la risposta sullo stesso forum, adesso la riprendo e la concludo.

Tutti noi abbiamo storie da raccontare, storie che, per quanto simili, hanno la caratteristica e la bellezza di essere ognuna diversa dall'altra.
Spesso si tende a generalizzare e ad appiattire tutto.
Il fatto di aver scritto qualche libro non mi fa affatto sentire uno scrittore. Sono un normalissimo impiegato e l’unica definizione che attribuisco a me stesso, scherzando ma non troppo, è quella di ragioniere della zolla, poiché da molti hanno mi occupo di contabilità in un’azienda florovivaistica, motivo per cui ho molto rispetto per gli alberi, perché sono proprio loro a permettermi di tirare avanti.
Sono arrivati i libri e, per la verità, sarebbe arrivato anche un contratto editoriale, al quale ne preferii uno per servizi editoriali. Perché? Si domanderà lei. Perché il mio scopo non era quello di farne un libro fine a me stesso, ma legarlo ad iniziative benefiche.
Cercai degli sponsor che contribuirono in parte alla realizzazione del libro, banche, ditte, amici imprenditori, in modo da poter usufruire non di una percentuale, come avrebbe offerto un contratto editoriale, ma dell’intero prezzo di copertina.
Non mi pentii di quella scelta, anzi, l’ho ripetuta con i libri successivi.
E’ così che oggi ci sono due o tre sedie in più all’ospedale pediatrico Meyer di Firenze, che alcune persone con sindrome di Down hanno potuto frequentare un corso di ping-pong, che alcune persone disabili hanno potuto fare qualche “pizzata” in più, che alcuni bambini del Burkina Faso hanno potuto ricevere qualche penna o quaderno in più, che sono stati posati tre o quattro mattoni per una scuola in Congo.
Scrivere questo, mi creda, mi crea un forte imbarazzo, per motivi facilmente immaginabili, ma è l’unico modo per togliere l’olio dai fiaschi, come si dice dalle mie parti, e per non alimentare equivoci.
Se un quinto libro arriverà? Per il momento non so, e non ci penso più di tanto, ma se quel giorno arriverà, mi guarderò allo specchio, un sorriso si impadronirà delle mie labbra e...

domenica 16 ottobre 2011

Quattro passi... con Ben - Cinquantaduesima puntata

Il momento, mercoledì 3 luglio 1985, arrivò. Destinazione Chieti.
Era un momento che volevo tenere lontano, volevo che non arrivasse mai. Lontano da casa, lontano da Cinzia, lontano da tutti, per svolgere un servizio che ritenevo inutile.
Avevo avuto anche la possibilità di poter scegliere di farlo più vicino, attraverso certe persone, ma non mi andava di arricchirle per le loro manovre sottobanco. Così, quando mio padre mi prospettò quella eventualità, dissi di no, decidendo che avrei accettato qualsiasi posto. Un anno sarebbe comunque passato in fretta.
Nei giorni che precedettero la partenza conobbi, tramite la radio, un altro ragazzo di Pistoia che, come me, era destinato a Chieti, con partenza lo stesso giorno, e che, come me, si chiamava Roberto. Fissammo di ritrovarci alla stazione per prendere il treno insieme.
Con Cinzia mi salutai il giorno prima della partenza.
Non volli che venisse a salutarmi alla stazione, anche perché partivo a notte fonda, da Prato, e lei abitava a Scandicci. I miei invece mi accompagnarono al gran completo.
Era una notte calda. Ero vestito con dei jeans ed una maglietta gialla, ed avevo una borsa con il minimo indispensabile dentro.
Strano, mi ricordo come ero vestito, cosa che abitualmente non mi succede.
Arrivai alla stazione che era più o meno mezzanotte. C’era poca gente, per lo più militari come me in partenza per svariati posti d’Italia. Arrivò anche Roberto.
Il treno arrivò puntuale, direzione Bologna, fino a Pescara. Da lì dovevamo prendere l’autobus per andare a Chieti. Dovevamo essere in caserma di mattina presto, credo entro le 9.
Salutai in modo sbrigativo i miei genitori e mio fratello, per non rendere troppo lungo e pesante quel momento, ben sapendo che li avrei rivisti uno o due mesi più tardi.
Con Roberto salimmo sul treno e cercammo uno scompartimento libero dove sistemarci. Ci accomodammo e non mi affacciai al finestrino per gli ultimi saluti con il treno che parte. Non volli vedere le mani dei miei che si agitavano per salutarmi.
Da quel momento avrei dovuto cavarmela da solo, per cui preferii un distacco netto, senza tanti fronzoli, come era nel mio carattere. E dopo pochi minuti ero già calato nella nuova “parte”. Di Cinzia, comunque, avevo portato una fotografia che le avevo fatto durante una nostra gita al Lago Trasimeno, una delle nostre prime uscite. Ancora oggi ho in casa quella foto, ritagliata e incastonata dentro una scatola dei Baci Perugina a forma di cuore che trasformai in un porta fotografie.

sabato 8 ottobre 2011

Ho inserito sul Forum "Leggere e Scrivere" del Corriere della Sera...

Motivazioni, e non narcisismo e vanità letteraria


Ho trovato, rientrando sul forum, un argomento che ciclicamente riappare: esordienti e pubblicazioni a pagamento e non. Ho letto anche parole come narcisismo, vanità letteraria, in cui non mi riconosco.
Non credo che queste parole abbiamo valore, o lo stesso valore, per tutti, anzi, credo che chi scrive debba essere più sensibile ad altre parole e sentimenti.
Prima di tutto vorrei capire meglio che cosa si intende per esordiente, ponendo una domanda attraverso un esempio (ho imparato ad avvalermi degli esempi da un paio di anni a questa parte, da quando incontro un gruppo di bambini che adesso sono in quinta elementare): io ho scritto quattro libri di cui tre pubblicati nel modo in cui qualcuno forse ricorda. Il primo, per me il più importante e verso il quale mi sento quasi in colpa, lo sto inserendo a puntate sul mio piccolo spazio web. Se adesso scrivessi un libro, e sarebbe il quinto, per assurdo pubblicato da un Signor Editore, risulterei un esordiente? O, semplicemente, passerei da sconosciuto a meno sconosciuto?
Detto questo, io credo più nei progetti: c’è l’urgenza di scrivere, ma ci sono anche altre urgenze, e lì bisogna darsi daffare, magari mettendo a disposizione una qualità che abbiamo. A volte si scrive, non solo per noi stessi, non per narcisismo o per vanità letteraria, ma perché sta cambiando qualcosa in noi e la scrittura può rappresentare un passaggio verso qualcosa di cui ci rendiamo conto solo dopo, proprio grazie a ciò che, ignari, avevamo scritto in precedenza, e che ci avvicina al tipo di persona che vogliamo essere. Così mi sono ritrovato a trasferire dalla carta alla realtà, in maniera non identica ma analoga, ciò di cui avevo parlato nei miei libri.
L’ultimo romanzo è uscito solo due anni fa, eppure mi sembra un tempo lontanissimo. Nel frattempo ho continuato a scrivere, senza affanni, iniziando un romanzo che poi ho cancellato, ho contribuito alla stesura di una commedia musicale, ho sceneggiato canzoni e attualmente mi diverto a scriverne, argomento che ho provato a proporre con un mio precedente intervento che non ha suscitato interesse.
Oggi mi sento una persona molto diversa da quella che ero quando ancora non scrivevo, arricchito interiormente da tutto quello che è scaturito dalla scrittura.
Ma se non avessi creduto nei progetti legati ai miei libri? E se avessi deciso di tenerli nel cassetto in attesa di?
E se non avessi deciso di pubblicare nel modo in cui qualcuno forse ricorda?

mercoledì 5 ottobre 2011

Avevo voglia di scrivere...

... e stasera l'ho fatto.
Una cosina breve, ricavata da un post scritto molto tempo fa.
L'idea è proprio quella: assecondando la mia ultima passione, mi sono messo in testa di trasformare in testi per canzoni quello che ho scritto nel corso del tempo.
Ah, se conoscessi anche la musica!

domenica 2 ottobre 2011

Sembra estate!

Questa mattina mi sono messo al computer con l'intenzione di scrivere qualcosa. Poi ho cominciato ad aprire a caso un libretto e a leggerne alcune citazioni, come questa:

"Gli uomini, non avendo nessun rimedio contro la morte, la miseria e l'ignoranza, hanno stabilito, per essere felici, di non pensarci mai." (B. Pascal)

lunedì 26 settembre 2011

Quattro passi... con Ben - Cinquantunesima puntata

Per anni avevo aspettato il momento della fine della scuola ma, quando mi resi conto che era terminata veramente, mi rimase dentro una sensazione di malinconia e un po’ di nostalgia per quel periodo, nonostante non fosse andata a finire come avrei voluto.
A settembre trovai subito da lavorare come programmatore, ciò per cui avevo studiato, ma quell’esperienza si rivelò un disastro, non per i risultati, perché me la cavavo abbastanza bene, ma perché capii definitivamente che quel lavoro non mi piaceva. Pensai che era stato inutile andare a scuola per tre anni a Firenze.
Le persone che conobbi in quell’ambiente non mi piacevano per niente: erano malati di “onnipotenza”, sapevano tutto loro e chi capiva un po’ meno di loro, o impiegava più tempo, era un deficiente. Non era il mio modo di essere, né di pensare. A questo fatto unii anche quello strettamente monetario, perché lo stipendio, anche se minimo, non era per niente automatico. Tirai le somme e il risultato fu quello di andarmene. Pochi mesi erano bastati e quella fu la prima ed ultima esperienza come programmatore.
A primavera, verso aprile, entrai come aiuto magazziniere in un maglificio.
Quando arrivai non avevo le idee molto chiare su quali fossero le mie mansioni. Io credevo di dover fare i documenti e magari vedere come funzionava l’amministrazione di una ditta reale. E così mi presentai al cospetto di pochi uomini (soci) e tante donne (operaie) vestito elegantemente come se dovessi andare ad una festa: pantalone fresco di lana blu, camicia bianca, gilet blu e mocassino nero.
“Questo è Roberto” disse uno dei titolari presentandomi alle operaie, le quali mi scrutarono da capo a piedi con uno sguardo di quelli che volevano dire: “Ma dove crede di andare quello lì, vestito in quel modo!”
“Buongiorno a tutti” dissi un po’ imbarazzato.
“Benvenuto!” dissero alcune di loro.
“Aiuterà Bruno in magazzino e, se ci sarà bisogno, farà compagnia anche a voi” riprese il principale. “Buon lavoro, ti spiegheranno quello che devi fare.” E se ne tornò nel suo ufficio al piano superiore.
Io mi misi a disposizione e Bruno, il capo magazziniere, mi illustrò il lavoro da svolgere.
E lì capii che l’abbigliamento che indossavo non era quello adatto. Infatti cominciai a muovere sacchi di filato, scatoloni pieni di maglie e rocche di fettuccia di cotone e simili. Tutto doveva essere pesato per un inventario periodico.
Alla fine della giornata sembravo il “negativo” di come ero arrivato: i pantaloni e il gilet blu erano bianchi dalla polvere e la camicia bianca era diventata nera per lo sporco. Infine i mocassini mi avevano sbucciato tutto il tallone. Un dolore!
Quando tornai a casa ero veramente spossato, non ero preparato ad un lavoro di fatica fisica.
Nei giorni successivi, con l’abbigliamento adatto, andò decisamente meglio. Le donne mi insegnarono a piegare ed imbustare le maglie, attaccare le etichette ed altro ancora. Quello che mi piaceva di quella ditta era l’allegria che vi regnava: si dicevano battute a ripetizione, si ascoltava spesso la radio, si rideva e si scherzava lavorando. Impiegai veramente poco ad inserirmi. Bruno era un bravo ragazzo, ma mi metteva un po’ in soggezione per la sua elevata competenza sul lavoro, così ero molto contento quando mi diceva di andare a fare il “gallo” dalle donne.
Queste cercavano in tutti i modi di scalzarmi, soprettutto per farmi dire se ero fidanzzato. Io facevo sempre il misterioso, rimanevo sempre sul vago, e questo le incuriosiva ancora di più. Poi un giorno dissi loro che mi ero messo insieme ad una ragazza. Allora mi investirono di altre domande, di tutti i tipi, ma io tenni duro, mantenendo quel tanto di mistero che le faceva andare in bestia!

domenica 18 settembre 2011

Metti una sera in... Music-ricordia

Abbiamo provato alcuni mesi per questo spettacolo, e non sono mancati momenti di tensione, soprattutto negli ultimi giorni prima dell’evento. Le canzoni scelte, anche troppe per il tempo a disposizione, non destano preoccupazione, come i tre balletti preparati. Il pezzo forte della serata, invece, dopo la prima prova fatta solo pochi giorni prima della rappresentazione, non convince, bisogna cercare di cambiare qualcosa.
Arriva un nuovo copione, che ricevo giovedì sera mentre sto friggendo i bomboloni per la festa. Alla ragazza che me lo consegna dico che lo leggerò, aggiungendo che “domani mi vedrai come non mi hai mai visto.” Ormai ho capito che quello spazio andrà riempito con improvvisazione, sul momento, traendo spunto dal pubblico, dai concorrenti e da chi sarà in scena con me.
Arriva venerdì, con quella sana tensione che mi accompagna sempre prima di ogni evento. All’ora di pranzo telefono a Giancarlo per dirgli di un’idea che mi è venuta in mente e che vorrei proporre anche agli altri, quando saremo tutti, prima di andare in scena. E lui risponde semplicemente che “tu sei quello creativo, andrà bene di sicuro.”
E così lo spettacolo prende la sua forma definitiva pochi minuti prima dell’inizio.
L’impianto audio fa i capricci prima di farsi domare, costringendoci ad iniziare la serata con qualche minuto di ritardo e a tagliare subito due canzoni per mantenere i tempi previsti.
Si inizia cantando, poi arriva il primo numero: si manda in scena “10 ragazze” di Lucio Battisti. Due di noi la cantano, mentre gli altri, in pista, la recitano e la ballano. Io devo interpretare la ragazza che “ha conosciuto tutti tranne me”, così mi devo travestire da… donna “spargi amore”.
Il numero piace, poi subito a vestirsi per il successivo. Il continuo cambiarsi d’abito ci ha accompagnati per gran parte dello spettacolo.
Ancora un paio di canzoni e poi è il momento del pezzo forte. Io devo interpretare un personaggio televisivo che dovrà fare il giudice di una gara di ballo. Dovrei parlare con un accento un po’ americano, strascicato, avere un atteggiamento un po’ effeminato e coabitare in scena con una valletta, interpretata da un uomo barbuto con parrucca biondissima. Vengo chiamato in scena e lì subito mi libero dell’accento americano, perché “da piccolo ho vissuto in Toscana”. Ho bisogno di spontaneità per improvvisare e il dialetto può aiutarmi. Poi dedico la mia canzone “Vai” al pubblico perché quella canzone “è stata scritta appositamente per la Festa dell’Uva, con particolare riguardo alle persone che, come me (mi tolgo il cappello) cominciano ad avere qualche capello bianco, ma che hanno ancora voglia di divertirsi e di sognare.”
Era questa l’idea dell’ultimo momento: portare in scena quella canzone che in precedenza avevo fatto ascoltare agli altri senza insistere per inserirla nello spettacolo perché non c’era uno spazio adatto per ospitarla, visto che era incentrato tutto al puro divertimento, e quella poteva sembrare troppo seria in quel contesto. Ma lì, adesso, ci può star bene.
Poi, via con la gara di ballo (o presunta tale). Con la... valletta subito ci rendiamo conto che possiamo osare e nascono dialoghi spontanei e qualche battuta. Non dobbiamo necessariamente fare ridere, non siamo comici, ma la prontezza che dimostriamo non causa tempi morti. Io comincio veramente a sorprendermi. Le parole escono dalla mia bocca come un fiume in piena, ispirato da qualsiasi cosa: le persone, i ballerini, la mia stessa maglietta. Copro la scena correndo là dove c’è la necessità di coprire uno spazio. Alla fine mi faranno male le gambe come dopo un allenamento sportivo.

Ho voglia di giocare, allora lo faccio con i concorrenti, durante la gara e quando devo eliminarli, e con il pubblico, che cerco di coinvolgere. In uno di questi momenti mi siedo ad un tavolo poiché “sono sfinito, portatemi una teglia di lasagne che devo riprendermi”, e lì sento una voce da dietro che dice “siete bravissimi”. Altro che lasagne! Quella sì che è un’iniezione di energia. E allora, via di nuovo in pista, più pimpante di prima, fino alla fine del gioco. Quindi a cambiarsi per il balletto successivo e lì, dietro una tenda, mentre ci spogliamo, sudatissimi, mi viene spontaneo andare ad abbracciare alcuni compagni, prima fra tutti la persona che, inizialmente, avrebbe dovuto condurre quel gioco. Ci complimentiamo a vicenda, la sensazione è che, con tutte le imperfezioni del caso, il pubblico sia rimasto lì a guardare. Con quali risultati? Non so, c’è sempre qualcuno che gradisce e c’è sempre qualcuno che non gradisce, ma le sensazioni sono buone.
Ci sono dei momenti che a volte non riesco a spiegarmi e uno di questi è quella magia, sì, magia, di essermi ritrovato al centro di uno spettacolo, quasi senza volerlo, in grado di improvvisare con una prontezza ed uno spirito che non pensavo di possedere.
Credo che siano momenti che capitano una sola volta, e non soltanto per l’improvvisazione.
La musica riprende, poi un balletto, altra musica, altro balletto e siamo alla fine, anticipata a causa di alcune gocce d’acqua irriverenti.
Tutti i vestiti indossati sono madidi di sudore, la voce ed il fiato fortunatamente ci sono ancora, quel tanto che basta per cantare l’ultima canzone, appositamente scritta per questa occasione, con testo ricavato sulla musica di un noto gruppo italiano. E mentre io canto sul palco, tutti gli altri scendono in pista con uno striscione per l’ultimo saluto: Arrivederci, goodbye!

sabato 17 settembre 2011

Quattro passi... con Ben - Cinquantesima puntata

Giovanni, il Borzo, fu il mio compagno di banco per tutto il triennio.
Abbiamo diviso molti pomeriggi di studio, feste ed ultimi dell’anno, come quello nella casa argentata, così chiamata perché le pareti interne erano state coperte in tutta la loro superficie con carta d’alluminio, come quella che si usa in cucina. A quella festa parteciparono anche alcuni compagni di classe, ma mancava un vero e proprio obiettivo da raggiungere; per dirla in breve, non c’erano ragazze particolarmente interessanti da puntare. Così passai la maggior parte della serata con le amiche di sempre, mentre il Borzo ce la metteva tutta nel cercare di conquistare il cuore delle ragazze che non conosceva e, nonostante non fosse un vero e proprio playboy, riusciva quasi sempre a far breccia. La sua simpatia, poi, faceva tutto il resto.
La sua ospitalità mi ha facilitato molto nel periodo scolastico, quando dovevo restare a Firenze. Di volta in volta ringraziavo lui e la sua famiglia per quello che facevano per me, Giovanni era sempre il primo ad invitarmi. I miei ringraziamenti erano profondi e sinceri, ma non so se sono riuscito a trasmettergli questa mia gratitudine.
Avevamo già finito la scuola ed io stavo lavorando, in attesa di essere chiamato per il servizio di leva.
Suo padre era stato male, sapevo che era stato in ospedale.
Una notte me lo sognai e la sera successiva decisi di telefonare a Giovanni per avere notizie.
“Ciao Giovanni, sono Roberto. Come sta il tuo babbo?”
“Eh, adesso sta bene” e dopo una breve pausa: “È morto oggi.”
Rimasi colpito da quella notizia. Come morto? Ma non era già ritornato a casa? Come era potuto accadere?
Parlammo ancora per poco, poi mi informai del funerale.
Papà Borzillo, come lo chiamavo io, era morto, improvvisamente e prematuramente, lasciando un vuoto incolmabile in quella famiglia a cui volevo tanto bene. Riappesi la cornetta del telefono ed andai in cucina dai miei genitori.
“Papà Borzillo è morto.”
Non riuscii a dire altro, e me ne andai in camera mia a piangere.

Cristina, la vecchia Tina.
La nostra amicizia si è protratta anche negli anni successivi alla fine della scuola.
Lei c’era nelle gite, nelle scampagnate, c’era nel pomeriggio in cui conobbi Cinzia, c’era al mio matrimonio ed io al suo, ha visto mia figlia di pochi giorni ed io ho visto suo figlio di pochi giorni.
Potrei raccontare tanti episodi che ci riguardano, cene, feste, ritrovi a casa sua di sabato sera, con interminabili battaglie a Risiko o a Monopoli, fino ad arrivare ai tempi di oggi, passando per i periodi in cui fra noi c’è stato solo silenzio.
Invece voglio ricordare un episodio che risale al lungo periodo in cui lei fu costretta a rimanere a letto, con la schiena bloccata, a causa di un brutto colpo che aveva subito.
Con Cinzia la andammo a trovare un sabato sera.
Era in camera sua e accanto a lei c’era un ragazzo, Marco, che non conoscevo e che anni dopo sarebbe diventato suo marito.
La sensazione di vedere Cristina distesa nel letto in quel modo non fu delle più piacevoli, e mi fece pensare a come può bastare poco, veramente poco, per passare da una condizione ad un’altra.
I mesi passarono e si riprese, così potemmo ricominciare ad uscire; questa volta però, a differenza del passato, entrambi in dolce compagnia.
Il fidanzamento con Cinzia era stato il punto di rottura di alcune amicizie femminili. Era stato così con Maria Rosa, in un certo senso con Stefania, con la quale rimanemmo in contatto ma con frequenza sempre minore, ed anche con Tecla. Con la vecchia Tina, invece, continuammo a sentirci, a vederci, fino al momento in cui entrambi diventammo genitori.
Come ho detto, ci sono stati anche periodi di lungo silenzio fra noi, ma quando ci siamo risentiti è stato come se quel silenzio non fosse mai esistito.
Io ho avuto sempre, dentro di me, un angolino per lei, e quel silenzio era molto pesante.
Un giorno, parlando di lei, un amico mi disse: “Perdere un’amicizia vera è difficile quanto farne una nuova.”
Ho fatto tesoro di quelle parole.

mercoledì 14 settembre 2011

Ecco...

"... la musica è finita
gli amici se ne vanno..."

La festa è finita, le luci si sono spente.
E tutti ci sentiamo un po' più soli.






sabato 27 agosto 2011

Quattro passi... con Ben - Quarantanovesima puntata

Giuliano, il sorriso con gli occhiali. Era un cranio, molto intelligente, ma sembrava costantemente prendere in giro il suo interlocutore di turno. Per questo motivo non è che avessimo troppi rapporti. Di lui ricordo le nostre partite di pallavolo al torneo scolastico, eravamo in quinta ed avevamo una bella squadra.
Arrivammo alla finale, che perdemmo, nonostante i miei pessimi servizi, ma ricordo che passammo il turno con un mio muro sulla schiacciata avversaria: il più piccolo in campo che va a stoppare una schiacciata sotto rete. Quando la palla partì dalle mani dell’avversario, io ero lassù, ad aspettarla, pronto a ricacciarla indietro. La palla atterrò nel campo altrui e per noi fu la vittoria.
Io fui sommerso dagli abbracci e Giuliano fu uno dei primi ad issarmi in alto, insieme a Paolo: “Grande Lillipuz!”. Era il loro modo affettuoso per dire che ero piccolino.

Ho studiato molte volte a casa di Paolo, insieme al Borzo, soprattutto prima dei compiti in classe. Studiavamo, ma ridevamo anche molto durante quei pomeriggi, e questo ci permetteva di alleggerire l’attesa. Poi arrivava sua madre, sempre cordiale e gentilissima, che ci preparava il tè con i biscotti per fare la meritata merenda, che ormai era diventata un rito.
Un bel ricordo appartiene alla gita di quinta, l’ultima.
Durante il viaggio mettemmo una cassetta di Simon & Garfunkel nel mangianastri del pullman, poi cominciammo a cantare. Il momento clou fu quando arrivò la canzone “Bridge over trouble water”, bellissima, che solo io e lui sapevamo a memoria.
Le andammo dietro, cantando con tutta la voce che avevamo. Lui intonato, io intonato, ci venne bene a tal punto che gli altri ragazzi vollero rimandare indietro il nastro per farcela cantare di nuovo.

Tecla inizialmente mi era antipatica, e viceversa, ma in quarta, quando ci conoscemmo meglio, tutto cambiò. Ci frequentammo anche nel periodo in cui entrambi lavoravamo a Prato, quando, durante la pausa pranzo, ci ritrovavamo per prendere un caffè insieme o solamente per parlare per alcuni minuti. Lei era sempre alle prese con storie amorose di difficile futuro, io ero fidanzato con Cinzia.
Mi ricordo che spesso andavamo all’Ippodromo, un parco di Prato, per parlare e passeggiare all’ombra degli enormi alberi di leccio. Altre volte andavamo a mangiare insieme oppure, d’estate, in piscina. E così facendo arrivammo al 1990, anno in cui mi sposai.
Al mio matrimonio non invitai molte persone: pochi parenti e, degli amici di scuola, solo il Giuba, Carmine e la vecchia Tina. Ad alcuni altri, fra i quali Tecla, mandai la partecipazione.
Lei non si fece viva. Ci rimasi molto male, e non ho mai avuto modo di sapere il motivo del suo silenzio. Mi sono domandato varie volte il perché, restando sempre senza risposta.

lunedì 22 agosto 2011

Vacanze finite

Quest'anno mi sono veramente riposato.
Il responso, inequivocabile, lo ha dato... la bilancia, ahahah!
Ne avevo proprio bisogno.
Non dei chili presi, ma cosa avete capito? Di riposo, intendevo dire!
Ho ripreso il lavoro, in attesa di settembre e del caldo autunno che, come di consueto, darà inizio ad un sacco di attività.

mercoledì 3 agosto 2011

Con la testa fra le nuvole

 ... poi ti ritrovi in alto, proprio con la testa fra le nuvole, scorgi il mondo che si presenta davanti ai tuoi occhi....


... e ti viene in mente una precisa canzone