domenica 27 febbraio 2011

Quattro passi con... Ben - Trentatreesima puntata

Eravamo rimasti diciannove.
La quarta per me fu un anno abbastanza tranquillo dal punto di vista scolastico.
Dico abbastanza, perché c’era la solita Matematica a far soffrire.
Io avevo trovato il mio equilibrio e riuscivo a prendere buoni voti in tutte le materie escluso “quella”.
Tuttavia riuscii a conquistare la definitiva fiducia del Piax riuscendo a fare bene un compito che tutti sbagliarono tranne io e Paolo. Solo noi due riuscimmo a prendere la sufficienza, e poiché il professore aveva ritenuto quel compito il più difficile fra tutti quelli fatti durante l’anno, essere stati gli unici a farlo correttamente ci fece conquistare molti punti in classifica, perché quello non poteva essere frutto del caso o della fortuna.
Insomma, tutto si era incanalato per il verso giusto. Non ero il primo della classe, ma, per dirla in termine calcistico, ero in zona Uefa, cioè nelle prime sei - sette posizioni.
Di quell’anno scolastico non ho ricordi particolari, salvo alcuni episodi.
Conobbi meglio Tecla, che l’anno precedente mi rimaneva alquanto antipatica; eravamo diventati quasi compagni di banco; infatti fra noi due sedeva il Borzo, ma questo non ci impediva di chiacchierare e scambiare il posto in modo da metterci accanto.
Lei era una ragazza molto intelligente, carina, aveva tutte le carte in regola per essere desiderata, ed invece si angustiava perché non riusciva ad avere il ragazzo. E quell’ansia era diventata per lei quasi un’ossessione.
Cominciò a confidarmi qualcosa delle sue ansie e così, lentamente, divenni per lei quasi un confessore.
Questa sua fiducia incondizionata nelle mie doti di “ascoltatore” andò avanti per alcuni anni, addirittura oltre gli anni della scuola.
Io cercavo di farle capire che doveva avere pazienza senza buttarsi in relazioni senza senso, che prima o poi avrebbe trovato la persona giusta, perché aveva tutte le qualità per essere amata. Le dicevo inoltre di stare attenta a non diventare la preda di ragazzi senza scrupoli. Alcune volte mi faceva tenerezza per la sua affannosa ricerca dell’amore.
Con gli altri ragazzi consolidai le amicizie in corso, soprattutto con Luca, il Giuba, Elena, Stefania, Cristina e Cecilia. Mi trovavo a mio agio con loro perché erano persone acqua e sapone.
Elena era frenetica, nelle mosse e nel parlare, era sempre sorridente. Era piccola di statura, ma aveva una grande vitalità ed una allegria unica. Spesso andai a studiare da lei, insieme ad altri, e mi accorsi che anche i suoi familiari erano come lei. Insieme sembravano un’allegra brigata. Uno dei suoi genitori, non ricordo bene se la madre o il padre, aveva origini pistoiesi, e questo mi rese più simpatico ai loro occhi, cosicché mi sentivo un po’ a casa, quando andavo da lei.
Stefania era diversa, più seria, meno allegra. La sua famiglia aveva origini umili. Sembrava, soprattutto andando a casa sua, che spesso dovessero stringere i denti per tirare avanti.
Stefania ed Elena entrarono a far parte di un gruppo cattolico con il quale sarei uscito anch’io alcune volte durante gli anni successivi.
Cecilia, poi, che dire di lei. Era la ragazza della classe con la quale parlavo di più. Spesso capiva i miei stati d’animo guardandomi, come quella volta che…

sabato 26 febbraio 2011

La stufa

È uno di quei momenti in cui sai bene che le parole non serviranno. Varchi la soglia della porta ed entri in casa. C’è gente. Lei, affranta dal dolore, se ne sta in piedi, offrendo le spalle alla stufa, con la mani aperte, con il palmo rivolto verso le fiamme, forse in cerca di quel calore che sa di aver perduto.
La saluti e l’abbracci, stringendola forte, per farle sentire tutta la tua vicinanza, il tuo affetto, tutto quello che puoi darle. Ma sai che non ci saranno braccia in cui lei potrà abbandonarsi.
In pochi parlano e, se lo fanno, lo fanno sottovoce, quasi a non voler disturbare. A volte è più forte il rumore dell’accartoccio dei fazzoletti che, a turno, vengono gettati nella stufa. Mani rapide aprono l’oblò, gettano quella cartuccia e richiudono, facendo attenzione a non bruciarsi. La fiammella, là dentro, si agita fra le pareti bianche e riprende forza per qualche attimo prima di tornare ai movimenti abituali.
Quella stufa ammalia tutti e, in quel silenzio surreale, attira tutti a sé. A turno, in molti si alzano portandosi davanti e stendendo le braccia per scaldarsi il palmo delle mani, prima di riprendere posto e lasciare che altri ripetano quel rito.
Altre persone arrivano e salutano, e ogni volta, ad ogni parola di incoraggiamento, ad ogni abbraccio ricevuto, in lei si rinnova il dolore e nuove lacrime escono dai suoi occhi stremati.
La fiamma, in quella stufa, adesso è stanca, ma subito ci sono mani pronte ad alimentarla con un pezzo di legno che, dopo aver stentato un istante, si lancia in nuove danze, infondendo nuovo calore in quella stanza.
Inesorabile, arriva il momento che nessuno avrebbe voluto. Tutti escono di casa, chi in silenzio, chi piangendo, cercando conforto nello sguardo altrui.
Davanti c’è lui.
Prima di andare qualcuno rientra in casa, dà un’occhiata alla stufa, apre l’oblò e vi getta un altro legno. Sì, perché lei, quando rientrerà, dovrà trovare la casa calda.
Poi esce e chiude la porta dietro di sé.
Quel calore non deve andare perduto.

sabato 19 febbraio 2011

Quattro passi... con Ben - Trentaduesima puntata

A farmi riprendere un po’ dal grigiore in cui ero caduto fu una delusione.
Una mattina che non andai a Firenze, perché avevamo deciso di fare sciopero non so bene per quale motivo, decisi di andare a trovare i miei vecchi compagni di classe a Pistoia.
Entrai all’ora dell’intervallo. Ero convinto che gli altri avrebbero avuto piacere di vedermi e mi avrebbero fatto un po’ di festa, invece non andò così. Tutti si dimostrarono presi da altre cose, o persone, che dovevano vedere per forza in quei minuti di ricreazione. Solo Sandra stette con me per quei pochi minuti, nemmeno Riccardo mi curò più di tanto. Sembrava quasi che non si ricordassero più di me e questo mi rattristò molto. Così decisi di allontanarmi prima che finisse la ricreazione, rinunciando a salutare qualche vecchio professore.
Ebbi una svolta da quell’incontro: i miei compagni erano andati avanti e non voltavano indietro i loro ricordi. Io, purtroppo, ai ricordi ero ancora legato e questo mi impediva di spiccare quel salto per lasciarmi alle spalle ciò che era stato e non era più. Mi resi conto che vivevo più nel passato che nel presente.
Ancora una volta un fatto negativo mi fece cambiare rotta. Avrei voluto evitarlo, nel senso che avrei accettato volentieri anche un evento positivo, ma evidentemente non avevo quella che si definisce una fortuna sfacciata.
Per l’ennesima volta dovetti farmi coraggio e ripartire. E ripartii.
Mi lasciai alla spalle i ricordi di Pistoia e accettai dentro la mia testa la mia nuova vita. Ero in ballo e decisi di ballare. Non chiesi aiuto a nessuno e forse in pochi si accorsero del mio disagio.
Il secondo quadrimestre andò decisamente meglio. Incominciavo ad ingranare come era sempre accaduto fino all’anno precedente, anche se Matematica rimaneva sempre al limite della sufficienza.
Durante l’anno approfondii nuove amicizie. Mi trovavo molto bene con Stefania ed Elena, perché erano persone molto semplici e, allo stesso tempo, simpatiche.
Con Luca ci accomunava il fatto di provenire di scuole diverse dal Galilei e con lui ebbi un rapporto che ci tenne uniti fino a qualche tempo dopo la scuola.
Con il Giuba invece stabilimmo un’amicizia che dura ancora oggi.
Lui era un vero e proprio rubacuori, tutte le ragazze cadevano ai suoi piedi; eppure lui, apparentemente, non faceva niente per attirarle.
Intanto cominciavo a conoscere meglio anche Cristina, la vecchia Tina, come la chiamavo io. Con lei ci siamo frequentati fino al momento in cui lei è diventata madre.
L’anno scolastico volse al termine senza clamori.
La gita, in Val d’Aosta, non fu un granché, nel senso che non ci furono avventure di nessun tipo, come invece era stato in passato, nel bene e nel male.
Rimediai le poche insufficienze, tranne Matematica, per la quale fui rimandato a settembre: un’onta per uno come me da sempre abituato ad essere il primo della classe; studiai con impegno e fui promosso senza problemi.
Il Piax, all’esame di riparazione, voleva che facessi bene la prova scritta, cioè quella in cui avevo manifestato le indecisioni più evidenti. Infatti, il giorno della prova orale, mi disse:
“Benassai, oggi non ho niente da chiederti. Andavi già bene durante l’anno scolastico. La prova scritta è andata bene. Potevo promuoverti direttamente a giugno, ma ho preferito fare così perché in quarta potrai ripartire già rodato.”
Queste, più o meno, furono le sue parole ed il significato del suo discorso e non ci fu interrogazione. In un primo momento fui pieno di rabbia, perché avrebbe potuto evitarmi di studiare per un’estate intera. Ma, successivamente, dovetti ringraziare il suo comportamento, perché effettivamente affrontai gli anni successivi senza particolari problemi.
In molti furono respinti, e la classe subì un netto calo di presenze.

lunedì 14 febbraio 2011

Quattro passi... con Ben - Trentunesima puntata

L’impatto fu abbastanza difficile, le materie erano molto pesanti, rese tali anche da alcuni insegnanti.
Ad Informatica, la materia trainante insieme a Matematica, avevamo un professore alquanto indecifrabile: all’inizio mi sembrò un buon insegnante, salvo poi dimostrarsi uno dei più viscidi.
Non iniziai bene in quella materia, sbagliando il primo compito.
Fu difficile convincere il professore che quel compito sbagliato era stata l’eccezione, e non la regola.
Si mise in testa che non ero da sufficienza e, anche se le successive prove scritte dimostrarono il contrario, lui rimase convinto che le mie buone prestazioni fossero frutto di copiature.
Impiegai tutto l’anno per convincerlo del contrario, a suon di voti.
L’altro osso duro era il professore di Matematica, il Piax.
Con pochi capelli, albino, con gli occhiali, secco allampanato, era il terrore di quasi tutti gli alunni che lo avevano come insegnante.
Con lui era impossibile avere qualsiasi tipo di rapporto. Non parlava e non faceva parlare. Sembrava il classico tipo frustrato che sfogava la sua inutilità sugli altri.
Non sapeva spiegare, ma si limitava a leggere i suoi appunti e a dettarli. Se qualcuno si faceva avanti per chiedere di ripetere perché non aveva capito, lui rileggeva pari pari quello che aveva detto in precedenza, senza aggiungere o approfondire altro.
Con lui anche le cose più facili diventavano difficili.
Io, che ero abituato da sempre a prendere voti buoni, se non ottimi, cominciai a conoscere l’amarezza delle insufficienze, toccando il fondo proprio a Matematica. Non potevo essere diventato un brocco tutto di un colpo, però i voti parlavano chiaro ed io non riuscivo a capacitarmi. E così, poco alla volta, persi la fiducia in me stesso ed il mio carattere si spense un po’; anche la mia personalità cominciò a subire colpi, persi la mia sicurezza, e mi sentii sempre più piccolo e impaurito.
Non brillavo più come gli anni precedenti, anche se di lacune gravi non ne avevo, salvo quelle già dette.
L’inserimento in quella scuola fu più difficile di quanto avessi potuto immaginare e già ne avevo immaginate abbastanza prima di incominciare.
La mia vita era cambiata radicalmente in poco tempo e la mia solitudine, se possibile, era aumentata.
Ero diventato tutto casa e scuola, con la sveglia che suonava molto presto al mattino e poi tutto il giorno a studiare, fino all’ora di andare a letto. Questo mi impediva di frequentare quei pochi amici che mi erano rimasti. Vedevo saltuariamente Maria Rosa e, il sabato, ma non tutti, il Saimon, con il quale uscivo per andare a passeggiare in centro. La domenica poi mi rinchiudevo ancora a studiare, almeno nove volte su dieci.
Il ricordo della bella annata trascorsa in seconda, mi tormentava, e molte volte ebbi la tentazione di mollare e tornare indietro, da dove ero venuto.
Il primo quadrimestre terminò con alcune insufficienze.

venerdì 11 febbraio 2011

La vita è altro

Chat, blog, facebook, netlog, twitter, forum, profilo, amicizia, contatti, mi piace, non mi piace più, commenta, post, messaggio, link, video, stato, tag... e se avete voglia potete continuare la lista.

Linguaggio che fa parte di un mondo virtuale.
Per alcuni questo mondo non è così virtuale come lo è per altri.
Certo, in rete si possono trovare spunti di discussione, di riflessione, di svago, di divertimento, ma...


la vita è altro.

sabato 5 febbraio 2011

Quattro passi... con Ben - Trentesima puntata

Giovanni, il Borzo, era un ragazzo molto allegro e sorridente. Ogni suo discorso era accompagnato da una risatina e dall’immancabile movimento delle gambe. Diventò per me il punto di riferimento per tutte le volte che, in seguito, sarei rimasto a Firenze per studiare. Lui mi ospitava a casa sua a mangiare, a studiare e, se occorreva, anche a dormire. La sua famiglia, di origini meridionali, era molto cordiale. Sua madre e suo padre presto diventarono Mamma Borzo e Papà Borzo.
Mi affezionai a quella famiglia e a Giovanni.
Per lui provavo un affetto particolare, anche se la nostra amicizia non fu mai profonda in quel tempo, forse per le molte differenze di carattere fra noi due. Io sembravo molto maturo, dimostravo alcuni anni in più dei sedici che avevo, mentre lui alcune volte sembrava avere qualcosa in meno, forse perché aveva sempre quella risatina sulle labbra.
Eravamo l’uno il contrario dell’altro: io amavo parlare poco, lui amava parlare molto; io ero serio, lui rideva in continuazione; io avevo i movimenti misurati, lui muoveva i suoi arti continuamente, io introverso, lui espansivo.
Forse ci completavamo a vicenda, ma in seguito orientammo le nostre amicizie verso persone diverse.
Eravamo una classe numerosa, ragazzi provenienti in gran parte da due classi, oltre a quelli che, come me, provenivano da altre scuole di Firenze e non. Infatti c’erano anche due ragazzi che venivano da Montecatini, Simone e Giacomo. Eravamo i tre “stranieri”.
Poco a poco cominciai a conoscere anche gli altri, in particolar modo quelli che incontravo in autobus, come Luca, Tamara e Cecilia.
Simone e Giacomo non prendevano il treno per arrivare a Firenze, ma l’autobus e, pur abitando più lontano di me, paradossalmente impiegavano meno tempo sia all’andata, sia al ritorno.
Per non perdere il treno di ritorno, quello delle 14,06, dovetti farmi rilasciare un permesso per poter uscire dieci minuti prima del normale termine delle lezioni.
In classe c’era anche una ragazza di Foggia, e sinceramente non si capì mai il motivo della sua iscrizione, perché venne poche volte e poi smise definitivamente, come fece poco dopo anche Tamara, che se ne tornò a Ragioneria, al corso normale.
Non era una classe omogenea ed unita, almeno all’inizio, poiché i ragazzi facenti parte dei due blocchi rimanevano ancorati nelle loro posizioni, senza cercare di legare con gli altri.
Così, posso dire, eravamo suddivisi in tre tronconi: da una parte c’era un blocco proveniente da una classe, dall’altra il blocco proveniente dall’altra classe, e in mezzo tutti gli altri che per la prima volta frequentavano il Galilei.
Per buttarla sul politico era un po’ come essere in Parlamento: Sinistra, Destra e Centro.
E queste differenze si notavano anche nelle assemblee, dove i blocchi avevano idee e posizioni ben delineate e diverse.
Insomma, non ebbi una grande impressione dei miei nuovi compagni di classe.
Oltre a Giovanni, le mie preferenze andavano per Luca, Carmine, Cecilia, Stefania, Giovanni detto Giuba, ed Elena, con gli altri incontrai molte difficoltà.